Nel giorno in cui cade il primo anniversario dell’inizio del conflitto russo-ucraino, appare ancora molto lontana la possibilità di ottenere a breve una pace diplomatica. La fine della guerra, iniziata con l’invasione dell’esercito russo nel Donbass il 24 febbraio 2022, oggi dipende ancora – e sempre di più – dall’uomo-solo-al-comando Vladimir Putin. La guerra che lui ha iniziato, costruito e ideato e che lui, evidentemente deve decidere di far terminare.

Un passaggio complicato, perché significherebbe, per l’ex KGB, ammettere pubblicamente che il suo piano iniziale non ha funzionato. Un concetto quasi impossibile da accettare da parte di Putin e della sua “cricca”, ma più in generale anche dalla classe dirigente russa e persino dal singolo elettore, che in Putin si è riconosciuto e che ha deciso di sostenere.

Il consenso e la costante bellica

Difficile misurare, però, quello che può essere l’attuale effettivo consenso del governo russo. In un Paese in cui, se affermi di essere contrario alla guerra rischi almeno sette anni di galera, è ovvio che i sondaggi non abbiano alcun valore statistico. Il consenso di Putin era, però, in calo prima della guerra a causa della persistente crisi economica e della cattiva gestione della pandemia, che aveva lasciato pesanti strascichi, in termini di vite umane perse, nel grande Paese eurasiatico.

E proprio questo calo di popolarità – a detta di molti analisti – rappresenta uno dei principali motivi che hanno poi portato al conflitto, perché a Putin, in generale, la guerra ha storicamente sempre “fatto bene”. Anzi, se vogliano Putin diventa il “Putin che noi oggi conosciamo” proprio con la seconda guerra in Cecenia, nel ’99. E da quel momento l’abbinata fra presidente russo e conflitto è diventata una costante.

Vladimir Putin

Ogni volta, infatti, che Putin ha cominciato a calare nei consensi una guerra lo ha quasi sempre aiutato a risollevarsi: è successo nel 2008 con la Georgia, si è ripetuto nel 2014 con la Crimea e sta succedendo ora, quando il presidente russo si avvia verso il quarto di secolo di governo, con l’Ucraina.

È chiaro, dunque, che c’è oggi ancora una larga parte del consenso di Putin che è connotato da elementi nazionalisti e nostalgici, con rivendicazioni (e conseguente risentimento) di una grandezza passata ormai perduta, ma per qualcuno ancora recuperabile.

Al netto di ciò è plausibile ipotizzare che la maggior parte dei russi sia contraria a questa guerra o comunque non la condividano, nonostante le ragioni di fondo propagandate, cioè l’annessione di territori abitati sostanzialmente da russofoni, possa da qualcuno anche essere sposata.

Quale effetto delle sanzioni occidentali?

L’obiettivo delle sanzioni occidentali non è certamente quello di colpire la popolazione ma gli oligarchi, perché nessuno vuole veramente affamare la gente. Le sanzioni mirano fondamentalmente a indebolire la capacità della Russia di finanziare la guerra e riguardano specificamente l’élite politica, militare ed economica responsabile dell’invasione. Per questo motivo, settori come i prodotti alimentari, l’agricoltura, la sanità e i prodotti farmaceutici sono esclusi dalle misure restrittive imposte.

Secondo un’analisi indipendente della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale (FMI) e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il 2022 è stato un anno particolarmente negativo per l’economia russa. Un trend che, secondo gli esperti, si confermerà anche nel 2023. Si prevede che il suo PIL diminuirà del 2,3% su base annua nello scenario più favorevole e del 5,6% nello scenario peggiore. Più che la caduta del Pil, però, il problema maggiore sembra essere rappresentato soprattutto dal’inflazione, giunta all’11,9% a inizio febbraio. Con un trend in ulteriore salita.

Si è verificato, di fatto, una sorta di “effetto combinato” fra le sanzioni occidentali e quelle imposte internamente dal governo russo stesso, come il divieto di far circolare dollari ed euro, che pesa molto, soprattutto su alcuni settori cruciali della vita delle persone, come la sanità. Insomma, sicuramente si può affermare che la vita dei russi oggi è senz’altro più complicata rispetto al periodo pre-guerra, quando, peraltro, già non era particolarmente florida.

Quale successione?

Un’eventuale successione di Putin, qualora dovesse arrivare non per volontà dell’attuale presidente, porterebbe probabilmente ad avere al comando un personaggio più orientato al “cessate il fuoco”, anche solo per il semplice fatto che, banalmente, se si volesse proseguire con la guerra, allora non avrebbe senso destituire l’attuale presidente. Se si volesse tornare a dialogare con il resto del mondo, quindi, risulterebbe inevitabile cercare di cambiare la “testa” del Paese con qualcuno più orientato alla fine delle ostilità.

Muʿammar Gheddafi

C’è, però, chi paragona la situazione russa con quella della nordafricana Libia di Mu’ammar Gheddafi, che pur essendo stato un dittatore sanguinario riusciva, in qualche modo, a mantenere con il suo pugno di ferro un certo ordine che oggi, nell’ex colonia italiana, non esiste più.

Potrebbe succedere la stessa cosa con la Russia? Tutto il mondo onestamente si augura un “golpe” portato avanti dai russi stessi. Ovvio che la presenza o meno della persona di riferimento su cui si fonda un intero sistema politico-militare-economico farebbe in modo che le cose cambino notevolmente, anche se non è certo che cambio in meglio.

Un collasso del regime, sul modello di quanto avvenuto in Libia, renderebbe possibile ogni tipo di scenario. Tanto che, a quel punto, una ulteriore disgregazione della Grande Patria Russia in più Stati non sarebbe nemmeno del tutto improbabile.

All’interno dell’opinione pubblica russa c’è, in effetti, chi avalla una de-imperializzazione del proprio Stato, ma se Putin è ancora al suo posto, nonostante tutto, è perché in fondo molti, anche fra coloro che auspicano un cambiamento, si rendono conto che senza di lui il rischio che tutto si possa all’improvviso sbriciolare sarebbe alto. Una situazione che potrebbe sì portare a tante nuove opportunità ma anche a tantissimi rischi, come ad esempio quelli relativi alla gestione dell’arsenale nucleare.

Le minacce nucleari e il “principio del precedente”

Il presidente americano Kennedy e il segretario del Partito Comunista russo Krusciov

A proposito, è chiaro che le minacce che la Russia ha fin qui gettato sul tavolo di lanciare la bomba nucleare sono soprattutto, parafrasando Jannacci, “per vedere l’effetto che fa”. Ci sono dei momenti in cui la Russia minaccia, in quest’ottica, con maggiore frequenza e altri in cui non ne parla per qualche settimana. Di solito questi ultimi periodi coincidono con qualche richiamo ricevuto dalla Cina, che fa capire a chiare lettere quanto sia inammissibile la minaccia nucleare.

Come diceva il vecchio “assioma del teatro” di Cechov, però, “se nella storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà”. È evidente quindi che nel momento in cui si infrange il tabu di parlare di bomba nucleare – un tabu che durava da oltre sessant’anni, dai tempi cioè della crisi cubana e di Krusciov – il rischio concreto esiste.

Negli ultimi decenni il nucleare era stato considerato “solo” un elemento, paradossalmente, per garantire la pace. Oggi ha tutta un’altra connotazione e rende la situazione molto pericolosa, perché è ovvio che più la Russia minaccia di lanciare le sue bombe nucleari sull’Ucraina e più l’Occidente viene spinto a non lasciar correre il pericolo, come invece aveva fatto nel 2014 con l’invasione della Crimea e l’inizio delle ostilità nel Donbass.

Aver lasciato correre all’epoca ha dato la sensazione a Putin di poter fare quello che poi ha fatto, dodici mesi fa, con il resto dell’Ucraina: il primo tentativo di annessione in Europa dal 1945 ad oggi, con una potenza militare soverchiante, almeno all’apparenza, che decide di prendersi il territorio di un vicino.

All’epoca si era deciso di aspettare e se da una parte i morti in Crimea si contano sulle dita di una mano e il conflitto nel Donbass, che pure ha riguardato migliaia di persone, ha avuto una connotazione geograficamente localizzata, ora stiamo parlando purtroppo di tutt’altra situazione, con una vera e propria guerra su larga scala, con bombardamenti di città, invasione via terra, deportazioni e tutto l’orrore che si porta dietro un conflitto di queste proporzioni.

Se questo precedente venisse in qualche modo riconosciuto – e questa cosa è detta in maniera molto chiara dai vari leader internazionali – non solo aprirebbe a Putin o a un suo eventuale successore la strada per ripetere questa azione in futuro, ma significherebbe anche legittimare altre potenze mondiali a farlo, distruggendo quel poco che rimane dell’ordine mondiale. Si pensi, ad esempio, alla questione Cina-Taiwan.

Una pace lontana

Ma quali potrebbero essere gli estremi per un accordo? Pare assodato che l’opinione pubblica ucraina in questo momento non accetterebbe più la cessione dei territori. Forse lo avrebbe accettato prima dell’inizio della guerra o comunque nei primi mesi del conflitto. All’epoca c’era maggiore disponibilità a lasciare andare la Crimea e il Donbass alla Russia pur di ottenere immediatamente la pace. Ora, però, dopo quanto accaduto a Bucha, la deportazione dei bambini, le camere di tortura, i bombardamenti dei condomini di Kiev e delle altre grandi città ucraine, quella disponibilità non pare esserci più.

Qual è la soluzione quindi? Chi può trattare con Putin e convincerlo a cessare immediatamente il fuoco? Un cessate il fuoco che, peraltro, non dovrebbe certamente stabilire uno status quo con milioni di ucraini sotto l’occupazione russa. Si è visto, d’altronde, cosa significa vivere sotto l’occupazione del regime di Mosca e sarebbe impossibile da accettare.

Il presidente turco Erdogan

In questo momento il mediatore principale rimane il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ma con un peso internazionale che possiamo definire relativo. E infatti all’orizzonte non stanno certamente volando colombe di pace. Anzi.

Se, al contrario, la Cina decidesse di intervenire sul serio a livello di mediazione (come pare voler fare in queste ore) avrebbe probabilmente la giusta forza per riportare la Russia alla ragione, perché il peso politico-economico del Dragone, soprattutto nei confronti dell’Orso, è notevole.

Abbiamo infatti già visto che, nel momento in cui Pechino afferma che ci sono cose che non si possono fare, Mosca almeno per un po’ si accoda. Se poi la Cina decidesse addirittura di mettere da parte la sua neutralità e si schierasse con l’alleanza occidentale cambierebbe tutto. Un’ipotesi che al momento appare, però, quantomeno improbabile.

Un negoziato, sottotraccia, è peraltro in corso da un anno, da quando cioè è scoppiata la guerra. Non ha ovviamente come interlocutore diretto Putin, con cui è oggettivamente complicato parlare, ma chi gli sta vicino, al fine di trovare una dignitosa exit strategy per la Russia.

Dopo l’11 novembre, quando l’esercito ucraino aveva riconquistato l’unico capoluogo occupato fino a quel momento dai russi, Kherson, si doveva forse spingere maggiormente per arrivare a un accordo di pace, ma invece che arretrare Putin ha rilanciato con una nuova mobilitazione di massa dei suoi soldati e un’offensiva spaventosa. A quel punto è apparso chiaro anche ai più ottimisti che purtroppo sarà necessario convincere Putin a mettere la parola fine su questo conflitto sul campo di battaglia.

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