In un recente articolo di Internazionale compare una notizia che farebbe venire i brividi se accadesse da noi: la Cina sta cancellando dalla storia il passato di Hong Kong. «Immaginate che Radio France o la Rai decidano di cancellare una parte dei loro archivi – scrive l’autore Pierre Haski -. […] Sembra uno scenario distopico che sarebbe piaciuto a George Orwell, e invece è ciò che sta accadendo a Hong Kong, territorio cinese teoricamente autonomo ma che sta tornando rapidamente nelle mani di Pechino. La radiotelevisione pubblica di Hong Kong, Rthk, sta infatti cancellando alcuni programmi risalenti a più di un anno fa, anche dai suoi canali su YouTube e altri social network.»

Tanto peggio per Hong Kong, potrebbe dire qualcuno, se la sbrighino tra di loro.
Sbagliato. Ce lo dimostra, con dovizia di fonti, il libro di Clive Hamilton e Mareike Ohlberg, La mano invisibileCome il Partito Comunista Cinese sta rimodellando il mondo, Fazi editore, 2021. Perché la Cina, forte della sua incomparabile potenza economica (unica potenza a crescere nel 2020), ha costruito negli anni una strategia di indebolimento delle istituzioni globali e nazionali, Italia compresa. Secondo gli autori, un piano che avrebbe più fronti d’azione e che spesso giocherebbe con l’ambiguità.

Parole che confondo le acque

La copertina de La mano invisibile, uscito lo scorso marzo per Fazi editore

La prima questione è semantica. Noi pensiamo di confrontarci con la Cina e le sue istituzioni, tra le quali un ruolo dirigente ha il PCC, Partito Comunista Cinese. Ma è una percezione errata, perché in realtà tutto, in Cina, è direttamente o indirettamente collegato al Partito, comprese le aziende di medie-grandi dimensioni che, con Xi Jimping, sono state tenute a creare organizzazioni del Partito al loro interno. La vicenda del fondatore di Alibaba, Jack Ma, sparito dopo dichiarazioni troppo schiette e ricomparso “silenziato”, è paradigmatica in questo senso, ovvero del fatto che – a differenza del mondo occidentale – il mondo imprenditoriale cinese non condivide le norme del libero mercato ed è invece organico all’azione politica.

Giocare sull’ambiguità delle parole, affermano gli autori, è una scelta precisa, perché il PCC con la tecnica dei doppi incarichi e delle doppie denominazioni nasconde i contatti diretti con associazioni che apparentemente sono a carattere volontario e rappresentano, ad esempio, gli interessi di gruppi di etnia cinese in altri Paesi. Un nugolo di associazioni che di fatto rispondono alla strategia del Fronte Unito, che – si legge – consiste nel «forgiare la coalizione più ampia possibile per indebolire il nemico principale».

Hamilton e Ohlberg suggeriscono l’esistenza di parole “sintomatiche” per capire dove si possa nascondere la lunga mano del potere. Nelle denominazioni, termini come “benefico”, “pace”, “sviluppo” stanno a indicare che ci troviamo di fronte a gruppi controllati o influenzati dal PCC. Applicando questo schema, ed è un esempio circostanziato nel libro, il MoviSol (Movimento Solidarietà), che fa capo al Movimento LaRouche – che con la Regione Lombardia ha organizzato una conferenza sul BRI a Milano – acquisterebbe tutto un altro significato. 

In campo ci sono anche le debolezze degli occidentali: la vanità e la corruttibilità delle persone, da una parte, e le incertezze economiche degli Stati, dall’altra. Da anni la Cina influenza i maggiori esponenti del potere con sovvenzioni dirette o favorendo le imprese economiche a loro o alle loro famiglie. Gli autori mettono sotto la lente di ingrandimento non solo politici americani, ma pure europei, anche se in questo caso l’obiettivo prioritario diventa disgregare un partner storico degli Usa e così isolarli.

Due casi: la Svezia e l’Italia

La vicenda di Anna Lindstedt, ambasciatore svedese in Cina, oggetto in patria nel 2019 di un procedimento penale per un comportamento molto discutibile nella vicenda di Gui Minhai, editore di Hong Kong di cittadinanza svedese ma sequestrato in Thailandia e rinchiuso in Cina senza processo, è solo uno dei molto casi. È però vicenda interessante sotto molti aspetti perché mostra come la Cina usi più strumenti di pressione contemporaneamente. Infatti, quando il centro svedese del Pen Club (associazione internazionale scrittori, nata a Londra cento anni fa) assegnò proprio a Minhai un riconoscimento, l’ambasciatore cinese a Stoccolma minacciò sanzioni commerciali alla Svezia da parte della Cina.

Per quanto riguarda l’Italia, nel libro viene analizzata la figura e l’azione di Michele Geraci, sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico nel Governo Conte I, che avrebbe lavorato per far sì che l’Italia “diventasse il principale partner europeo della Belt and Road Initiative” (ovvero il BRI, la cosiddetta “Via della seta”). Geraci avrebbe sostenuto che «la Cina è la risposta a tutti i problemi più gravi dell’Italia» e avrebbe fatto usare al suo staff l’app cinese WeChat, «che – affermano gli autori – è tenuta sotto controllo da Pechino».

Il libro riporta che Geraci avrebbe vissuto e lavorato 10 anni in Cina in una delle università sede «di vari professori occidentali filo-PCC» e sarebbe stato ospite di un think tank «presieduto da funzionari al massimo livello del Fronte Unito [al quale] venne invitato a parlare» e che scrisse «articoli di commento sugli organi ufficiali del Partito» come China Daily.

Immagine tratta dal testo di C. Hamilton e Mareike Ohlberg La mano invisibile. Come il Partito Comunista Cinese sta rimodellando il mondo, Fazi editore, 2021, che mostra una strategia del Fronte Unito. Lo schema evidenzia la diretta emanazione dell’agenzia di stampa Xinhua dal Dipartimento di propaganda del PCC, insieme al quotidiano China Daily e al gruppo editoriale Voice of China.

La Via della seta che sfilaccia l’Europa

Una volta appianate le diffidenze dei governi occidentali anche con il condizionamento di personalità chiave, la Cina (ovvero il PCC) può così dispiegare le sue molte armi di persuasione per insinuarsi nelle economie e nelle decisioni politiche, una delle quali è il BRI che agisce su molti livelli, come quello apparentemente innocuo dei gemellaggi tra città: Hamilton e Ohlberg segnalano, infatti, che al gemellaggio seguirebbero «scambi e cooperazione fra le rispettive autorità locali, media, think tank, università e giovani».

Quindi, il BRI si dimostra uno strumento eccezionale per sfilacciare l’Unione Europea, forte del fascino economico per Stati economicamente traballanti presenti nell’Est europeo o come la stessa Italia, che ha deciso di partecipare alla Via della Seta nonostante poco prima l’UE avesse diffuso una relazione in cui definiva la Cina come “rivale sistemica”.

Per avere un’idea di come un trattato economico possa diventare strumento di propaganda di un sistema – e quindi essere condizionante – si veda come esempio, anche al di fuori delle fonti del libro, questo articolo dell’Ansa, a responsabilità editoriale Xinhua, la principale agenzia di stampa cinese, ritenuta già nel 2005 da Reporters sans Frontières «la più grande agenzia di propaganda del mondo». Gli effetti del BRI sulla povera gente dell’est Europa vengono rappresentati con toni patetici che assomigliano ai filmati con cui, negli anni ’50, gli Usa giustificavano ai propri cittadini il costo del Piano Marshall.

Guerra economica o ideologica?

La copertina de Lo scontro degli Stati-civiltà di Christopher Coker, sempre per Fazi editore, 2020.

Perché la chiave, almeno inizialmente, è di carattere economico. Ma la semplice integrazione delle economie non basta a garantire il rispetto culturale che la Repubblica Popolare si aspetta. Come sottolinea anche il filosofo politico Christopher Coker in Lo scontro degli Stati-civiltà (Fazi editore, 2020), l’obiettivo non è far parte della partita economica ma quello, dichiarato, di aprire il mondo al multiculturalismo e, con minore evidenza, proporre (o imporre) il proprio modello anche al di fuori del contesto asiatico.

Secondo Coker e Hamilton-Ohlberg il PCC è determinato a rimodellare il mondo a sua immagine e somiglianza, con un solo obiettivo: vincere quella che considera una feroce guerra ideologica contro l’Occidente.

Ai suoi occhi il mondo si divide tra coloro che possono essere conquistati e i nemici: «Grazie a questo corredo di idee e valori – scrive Coker – la Cina punta a consolidarsi come una “civiltà spirituale” unica, fondata sulla tradizione confuciana, che ha sempre dovuto combattere contro le “barbariche forze straniere”». E questo, per Hamilton-Ohlberg, passa attraverso un ventaglio di strumenti, tra cui il qiaowu, ovvero un lavoro per «influenzare le scelte, la direzione e la dedizione dei cinesi d’oltremare», sempre nel quadro generale del Fronte Unico, arrivando a organizzare «campi estivi alla ricerca delle radici» allo scopo di selezionare giovani che diventeranno i futuri capi delle loro comunità nei Paesi stranieri, legando così direttamente la vita delle comunità cinesi nel mondo (60 milioni circa) alle strategie del PCC.

Da influenza a ingerenza

Passa, poi, per la manipolazione dell’informazione interna, ma pure sull’influenza, se non interferenza, sui Paesi in teoria liberi come l’Europa, quando si prova a veicolare un’immagine della Cina diversa da quella propagandata dal PCC.

A riprova, Hamilton e Ohlberg portano, tra i tanti esempi, quello del festival di Berlino che, nel 2019, avrebbe ceduto alle pressioni della Cina ritirando due pellicole scomode, secondo alcuni anche su mandato della tedesca Audi, che temeva ritorsioni sul fronte del mercato cinese. 

Oppure, quando dei fuoriusciti cinesi della pratica spirituale Falun Gong diedero vita alla compagnia Shen Yun Performing Arts: il governo cinese ha cercato in tutti i modi di bloccare i loro spettacoli in giro per il mondo. Nel 2011, ad esempio, il console cinese in Nuova Zelanda scrisse agli assessori della città di Auckland di non andare a vedere il loro spettacolo. I neozelandesi lo mandarono a quel paese.

Una artista di “Shen Yun Performing Arts”, immagine tratta dalla pagina Facebook

Ma nel 2017, invece, l’ambasciata cinese a Copenaghen convinse il Teatro Reale danese a non ospitare Shen Yun. Due anni dopo accadde lo stesso al Teatro Real di Madrid. La pressione è così forte da arrivare all’autocensura preventiva per evitare ritorsioni economiche. Persino nel sequel del film Top Gun dalla giacca di Maverick sparirono le bandiere di Giappone e Taiwan.

Questi solo alcuni dei tantissimi spunti del libro. Un testo che, insieme a quello di Christopher Coker, ci pone di fronte a una scelta sempre più pressante: continuare a rimanere inerti e barattare le poderose risorse economiche della Cina comunista con il sacrificio non solo di Hong Kong, di Taiwan, del Tibet, degli uiguri, ma pure del concetto che definisce l’essenza stessa dell’Occidente, ovvero l’universalità dei diritti umani. Oppure, battere i pugni sul tavolo riappropriandoci di una dignità dimenticata, che potrebbe mettere a rischio tutto ciò abbiamo.
Avere o essere, insomma.

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