Il 10 novembre esce per le Edizioni Paoline Donne di sabbia, il primo libro di Laura Cappellazzo, giovane educatrice trevigiana che ha saputo portare il suo lavoro fatto principalmente di storie, nero su bianco, in punta di piedi, per raccontare la violenza e la rabbia, ma anche la speranza e la rinascita. Nata a Oderzo, in provincia di Treviso, dal 2004 ha lavorato con minori maltrattati e vittime di abuso e con vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo.  

Laura, cosa ti ha portata a scegliere questo lavoro? Qual è stata la scintilla per iniziare un percorso così in salita? 
«Nel 1999 mi sono diplomata al liceo. Sapevo di voler intraprendere la carriera universitaria e di voler rendermi utile con il mio lavoro, ma non avevo ancora le idee chiare. Quell’estate sono partita per un’esperienza di quindici giorni con la Caritas di Vittorio Veneto. Si andava nei Balcani a fare animazione a gruppi di bambini che ancora portavano le cicatrici della guerra addosso. Avevo 18 anni ed era la prima volta che uscivo dall’Italia e che mi scontravo con le conseguenze della guerra. Vedere quei bambini, sentire la loro voglia di giocare e di avere una vita, vederli sorridere in mezzo a edifici distrutti, alla mancanza di mezzi e certezze e per il futuro è stato come ricevere una scarica elettrica. Non avevo ancora le idee chiare, ma avevo una meta: volevo continuare a far sorridere le persone, fare in modo che nonostante le violenze che avevano vissuto potessero sentirsi degni e capaci di una vita bella. Il lavoro me lo sono poi via via costruito addosso. Mi sono scelta le esperienze lavorative che mi interessavano e ci accompagnavo lo studio necessario a svolgerlo. Fare l’educatrice è un lavoro artigianale: dove l’azione e lo studio viaggiano di pari passo.» 

Portare il tuo vissuto lavorativo in un libro non è cosa da tutti. Com’è nata la necessità di scrivere e questa opportunità? 
«Due anni fa mi sono trovata a dover cambiare completamente settore lavorativo. Ho lasciato il lavoro nel sociale per dedicarmi alla gestione di una piccola azienda famigliare. Era necessario, ma per me è stato dolorosissimo. Era come rinunciare a una parte di me, un qualcosa che mi ero costruita giorno per giorno, per vent’anni. Scrivere mi ha aiutato a riordinare il mare agitato che avevo dentro. Ma soprattutto, mi ha permesso di poter trovare il modo di continuare a occuparmi “delle mie donne” anche se non più in prima linea. Il desiderio infatti è di poter creare attorno a questo libro dei momenti di riflessione, di discussione. Dire alla gente: “Ehi, guardate! Ci sono donne che vivono questo in Italia! Ci sono donne che ogni giorno provano a rialzarsi, a ricostruirsi. Parliamone. Parliamo da dove arriva questa violenza silenziosa che sembra non poter essere sradicata dal nostro modo di vivere. Parliamo della forza interiore delle donne, parliamo del perché siamo portate a sopportare, sopportare, sopportare, fino a romperci. Proviamo ad alzare gli occhi dalle nostre cose di tutti i giorni e a dare uno sguardo a quello che ci succede intorno! Non serve andare tanto lontano, basta solo fare spazio tra i nostri pensieri e cominciare a guardarci in giro con curiosità”. Il libro esce in un periodo difficile, me ne rendo conto. Perché questa pandemia ci sta facendo chiudere in noi, nelle nostre preoccupazioni e non aiuta a essere aperti agli altri, a essere incuriositi e interessati alla vita degli altri. La solidarietà è messa a dura prova di questi tempi. Ma le donne che ho conosciuto, i bambini con cui ho lavorato, mi hanno insegnato a non arrendermi alle circostanze. Non solo. Vorrei anche dire che ci sono migliaia di persone che ogni giorno, attraverso il loro lavoro di educatori, operatori, lavoratori nel sociale, provano silenziosamente a costruire una società più giusta, intessuta di relazioni improntate al rispetto mutuo, all’aiuto, alla cura. Siamo così abituati ad ascoltare gente che urla e ferisce con parole di odio chi è diverso e fragile, che rischiamo di dimenticare che c’è già chi, invece, sta provando a costruire un’Italia più accogliente e giusta.»  

Come sei riuscita a scegliere quattro storie delle tante che hai ascoltato e seguito finora?  
«Sono loro che hanno scelto me. Davvero. Quando ho cominciato a scrivere è uscito un fiume in piena che io ho solo seguito. Probabilmente sono quelle che a livello emotivo mi hanno messo più alla prova. Non so perché… a volte sono stata tentata di sostituire la storia di Soledad con qualcun’altra, perché a Lima ho ascoltato storie terribili, con degli atti di violenza assurdi. Se avessi voluto scegliere i colpi di scena, avrei raccontato altre storie. Ma non era quello il mio scopo, non era fare sensazione, magari mancando di rispetto a chi mi aveva condiviso le sue tragedie che io poi mettevo in piazza. Soledad rappresenta benissimo la linea subdola della violenza, forse è quello che mi ha “disturbato” a livello emotivo e che me l’ha fatta scrivere per prima.»  

Chi sono per te le tue donne di sabbia? 
«Sono esempi. Nelle loro menzogne, nelle loro fatiche, nei loro sbagli, nelle loro cadute, nelle loro fragilità, nei loro tentativi, nel loro rimanere imperfette e rotte, rimangono per me degli esempi che mi dicono: “Avanti. Non mollare. Nulla è perfetto. Tu vai avanti e ritenta. E soprattutto… non ti lamentare!”».

Con lo scoppio dell’emergenza Covid-19 in Italia a marzo 2020 le criticità sono aumentate per quanto riguarda la violenza di genere? 
«Il libro esce vicino alla data del 25 novembre, giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne. Nei mesi di lockdown in primavera, i casi di violenza domestica sono aumentati in forma esponenziale: le richieste di aiuto sono state il doppio rispetto al 2019. Come sempre, quando ci sono delle emergenze, chi ne paga la somma più alta sono i componenti più fragili della società. L’emergenza sanitaria ha aumentato le richieste di aiuto, ma ha reso più complesso il percorso di presa in carico. Anche per quanto riguarda il lavoro contro la tratta e lo sfruttamento sessuale, le cose si sono complicate. Qui l’emersione del problema si è fatta ancora più difficile. Durante il lockdown ci sono stati casi di ragazze letteralmente abbandonate dai loro aguzzini: rinchiuse negli appartamenti senza cibo e senza la possibilità di uscire. Molti centri Caritas si sono trovati a dover portare cibo a queste ragazze che stavano morendo di fame. Durante l’estate, quando le misure si sono allentate, i numeri sono tornati agli stessi livelli dell’anno scorso, denotando il più completo menefreghismo dei clienti verso il pericolo di infettarsi o di infettare le prostitute. Anche sul fronte del lavoro irregolare le cose sono peggiorate: le persone vulnerabili senza documenti e senza tutele, sono anche quelle più disposte ad accettare condizioni di lavoro sottopagate e senza le corrette protezioni sanitarie. Un esempio: nelle nostre campagne trevigiane, sono stati moltissimi i ragazzi immigrati che si sono contagiati di Covid durante la vendemmia.» 

Questo libro ha subìto modifiche rispetto al momento storico che stiamo vivendo? 
«Purtroppo no. Nel senso, sarebbe bello poter dire che poiché c’è un problema grave che ci unisce tutti, siamo diventati più attenti al prossimo. Quello che sta succedendo invece è proprio il contrario. La paura e la diffidenza ci stanno allontanando e stiamo vivendo in una società sempre più chiusa ed egoista dove i nuovi virus inacerbiscono quelli vecchi.» 

Cosa vorresti dire alle tue donne di sabbia che ti leggeranno? 
«Grazie. Vi porto nel cuore e spero di rendere giustizia alle vostre storie e a quanto avete vissuto, raccontandole a voce alta.»