«Sono un’autrice, più che una scrittrice, perchè sono convinta che un titolo così alto è giusto che te lo diano gli altri. Ma ci arriverò. Io preferisco sempre studiare tanto ogni volta che mi metto a scrivere un libro. È un lavoro costante».

È così che inizia l’intervista a Paola Peretti, anno 1986, una laurea in Lettere e una specializzazione in Editoria e giornalismo conseguite all’università di Verona, a poco più di due mesi dall’uscita a fine giugno del suo secondo romanzo, La brigata delle cinque sorelle, edito da Rizzoli.

Formatasi alla scuola Palomar di Rovigo con un corso di tecniche narrative, ha pubblicato il suo primo romanzo, La distanza tra me e il ciliegio, sempre con Rizzoli nel 2018.

La storia verte attorno a cinque donne dai nomi singolari e a una giovane ragazza di 22 anni a cui sarà affidato il compito, da una delle zie, di ricostruire una fetta di storia familiare, il ritrovamento dello zio dato ormai per morto. Una storia di forza, di resistenza, di un’unità familiare tutta al femminile.

La copertina dell’ultimo libro di Paola Peretti, da fine giugno in libreria.

Partiamo dal titolo. Perchè ha scelto proprio la parola “brigata”?

«Per me ha un significato duplice, forse triplice. Intanto ricorda la brigata di cucina, la squadra che sta dietro le quinte di un ristorante. Le protagoniste cucinano per tutta la vita nel quotidiano. Fa percepire anche un senso di unità familiare, ed è un rimando ai gruppi di resistenza tra il ’43 e il ’45 in buona parte d’Europa».

Il perno centrale del libro è la famiglia: Il romanzo in qualche modo ruota attorno alla figura femminile e la ricostruzione della storia di questa famiglia è affidata a un’altra figura femminile. Chi sono queste cinque sorelle?

«È un romanzo che parla anche della forza delle donne, un tema a me caro. Spero di non averlo banalizzato. C’è ancora tanto lavoro da fare in questo senso. Queste cinque sorelle sono personaggi tratti dal vero e sono persone che sono state tanto forti durante la vita e ora hanno l’Alzheimer, lottano per non perdere sé stesse ma ci sono cose che non possono controllare. Cecilia, la nipote, è vittima anche di questo amore, arriva il momento in cui deve uscire dal guscio. Spesso nelle famiglie multifemminili ci sono queste dinamiche, come se lei avesse cinque madri. E non penso sia del tutto positivo».

Come mai?

«È bellissimo avere una famiglia d’origine, non si è mai da soli. Ma appunto, bisogna anche stare da soli, ascoltarsi. Cecilia ha anche un problema di sordità. Deve ascoltarsi e nessuno di noi vorrebbe farlo, ma vi sarà obbligata nel momento in cui dovrà lasciare il nido».

I nomi di queste cinque sorelle, Urania, Talia, Tersicore, Melpomene, Euterpe, sono molto particolari…

«Portano i nomi delle muse greche e per la classicità sono dee della memoria, volevo ci fosse questo rimando. Il personaggio forse prevalente è Euterpe. Ed è l’unica che non si trasferisce mai a Verona».

Prima diceva che queste cinque sorelle sono esistite davvero. Rimandano a una sua storia?

«Sì, sono le sorelle di mia madre. Lei aveva un fratello venuto a mancare e ho pensato di farlo rivivere nel libro. Dove è scomparso, in realtà è dato per morto. Mi sono rifatta alla realtà, mi sono inventata poco anche se poi ho romanzato parecchio. Penso che gli autori che trattano il mio stesso genere, la narrativa, in termini generici facciano questo percorso: traggono dal vero e poi inventano queste storie».

Cosa significa scrivere di legami familiari oggi?

Paola Peretti, a sinistra, durante la presentazione del suo ultimo libro a Ponti sul Mincio, ospite dell’associazione culturale Il Castello.

«Diciamo che io personalmente prima ancora di scrivere il primo libro ho cercato di guardare dentro quella voragine che abbiamo tutti, dove nascondiamo tutti i nostri drammi esistenziali personali. In questo caso ho fatto un bel percorso. Io sono stata figlia fino a 30 anni, figlia nel senso meno positivo del termine. Poi le cose nella vita mi hanno costretto a crescere e mi hanno portato a scrivere. Mi rendo conto che tanti scrittori guardano al passato per parlare dei rapporti familiari di oggi. Ma è la classica domanda che dobbiamo farci: chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. Non è stato facile per me, anche se pensavo di aver fatto un bel lavoro sui miei rapporti familiari, ma finora nessuno si è offeso».

Nel romanzo il compito di ricostruire la storia della famiglia è affidato a una giovane ragazza. Oggi si fa un po’ fatica a dire “impariamo dai nonni”?

«Penso di sì. Io stessa ho avuto in casa la nonna e non mi rendevo conto che poteva essere una fonte importante di storia, di informazioni su quello che si poteva fare meglio. Il divario generazionale secondo me è sempre più ampio per vari motivi. Sembra che veniamo da due mondi e universi molto lontani, che in qualche modo però continuano a toccarsi. Le problematiche cambiano ma siamo sempre un’umanità. È il dialogo che sta forse venendo a mancare. I libri sono ancora uno strumento utile. Non dico che non lo siano i social, ma il libro ti costringe a concentrarti e a vedere le cose sotto un certo punto di vista per un tempo più lungo».

Cosa si augura che i lettori trovino nel suo ultimo romanzo?

«Vorrei che trovassero una storia non scontata di famiglia composta da donne. Spero non vengano considerati personaggi stereotipati, ognuna aveva i suoi sogni non sempre prettamente femminili. Spero che in tanti accolgano la problematica dell’Alzheimer, perchè è una malattia che colpisce tutto il nucleo familiare e sociale della persona che ne è affetta. Che ne possano trovare una chiave di lettura, che è stata affrontata nel libro anche con ironia. Potrebbe essere un modo per affrontarla, pur nel rispetto del dramma che comporta».

Spesso si parla solo del malato ma come tutte le malattie coinvolge anche l’intera famiglia che lo circonda. Il messaggio quindi è l’adoperare più strumenti a supporto della famiglia?

«Sì, sono convinta che si impieghino risorse anche per cose più futili, mentre c’è sempre bisogno di tanto supporto per la famiglia e la cerchia di amici che se ne prendono cura. Anche un supporto psicologico. Secondo me non è sempre chiaro cosa venga richiesto quando si fa una diagnosi di questo tipo».

A che punto siamo in questo senso? Ci si sta qui muovendo nella direzione giusta?

«Penso che siamo ancora indietro, ma in tutta Italia. Al nord non siamo messi meglio del sud. Credo si investano tante risorse in cose molto meno importanti, però credo che le persone possano darsi una mano a vicenda. C’è una grande nascita di associazioni, tra vittime delle stesse cose della vita stanno nascendo delle belle realtà. Dobbiamo darci una mano tra di noi e bisognerebbe anche parlarne un po’ di più. Ogni libro è un’occasione per dare voce a una realtà che altrimenti rimarrebbe inascoltata».

Dalla sua pagina Facebook si nota il tuo legame con la Turchia, Che tipo di connessione c’è?

«Il legame è nato anni fa, quando sono venuta a sapere della morte di Pippa Bacca, (artista italiana brutalmente uccisa a Gebze, una cinquantina di chilometri a sud di Istanbul, durante un viaggio che faceva parte di una performance itinerante, con meta Gerusalemme, ndr.) Il caso mi aveva colpito molto, anche la sua storia. Poi quando è uscito il mio primo libro, la Turchia è stato uno dei primi Paesi ad averlo acquistato e ha venduto bene (La distanza tra me e il ciliegio è stato tradotto in più di venti lingue, ndr). Ci sono tante cose che i turchi amano del mio primo libro, come la presenza dei gatti e l’albero del ciliegio che per loro è simbolo di libertà e resistenza. Ho costantemente un rapporto con i piccoli lettori turchi, sono stata invitata nel 2019 al Festival internazionale della letteratura di Istanbul. Si sente un forte legame con l’Italia, hanno scuole in cui si insegna la nostra lingua. In qualche modo ci amano».

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