Arriva a Verona a presentare il suo ultimo saggio, La città e il fantasma: Dal muro di Berlino ai nuovi muri, edito da Castelvecchi. L’appuntamento è all’interno della rassegna Brutti caratteri – Editoria e culture indipendenti in corso in città fino al 27 settembre, per raccontare di come la caduta della cortina di ferro sia frutto di un processo e non di una partita a dadi tra Occidente e Socialismo reale. A sostegno Davide Grasso porta i diversi documenti consultati negli archivi della capitale tedesca, dove ha trascorso un periodo di ricerca, insieme all’analisi delle rivolte in Est Europa iniziate già negli anni Cinquanta, fino a quella di Danzica nel 1981, pochi anni prima della Wende.

«La mia generazione è cresciuta assistendo al fallimento del più grande degli esperimenti alternativi alla società capitalista – afferma Grasso, mentre sta raggiungendo Verona -. Però su di esso è stato scritto molto in termini ideologici, con accanimento su un cadavere sconfitto senza dare spazio alla ricostruzione di quanto i movimenti operai, studenteschi e giovanili si siano sviluppati e abbiano portato all’instabilità di quel sistema. Occorreva secondo me fare una cronaca di quelle ribellioni. D’altronde sono stati movimenti in linea con quelli di matrice socialista che nell’Otto e Novecento si erano battuti per la libertà.»

L’ultimo libro di Davide Grasso,
La città e il fantasma, edito da Castelvecchi

Dottore di ricerca in filosofia, scrittore e reporter indipendente, Grasso ha trovato in Germania una consapevolezza maggiore sul ruolo dei movimenti sociali che hanno portato all’abbattimento del Muro. «I tedeschi hanno vissuto anche quanto il capitalismo si sia comportato male dopo l’89 nella Germania Est e oggi ne vivono le conseguenze in termini di instabilità politica. E gli ex cittadini della DDR sono in grado di confrontare i due sistemi. Nella maggioranza dei casi continuano a pensare che fosse giusto eliminare il socialismo reale, ma non che ci fossero aspetti positivi che mancano nel sistema liberista.»

Gli anni successivi al crollo del Muro hanno visto aumentare le manifestazioni di massa, fino ai movimenti no global iniziati sulla soglia degli anni Duemila. L’Italia con il G8 di Genova porta ancora i segni del livello di scontro con le istituzioni. Ora le proteste riunite sotto la sigla del “Black lives matter” non si fermano. In questi trent’anni cosa è cambiato nella militanza?

«La fine del comunismo ha lasciato il mondo orfano di una visione organica e di una proposta rivoluzionaria di trasformazione. Da un lato c’è un’economia più avanzata nei paesi occidentali e asiatici, dove nascono e muovono movimenti che non diventano organizzazione, sono privi di una visione condivisa di graduale presa del potere, o di come usarlo per attuare trasformazioni concrete. Ora ci si limita a chiedere alla politica un cambiamento di atteggiamento: cosa giusta, ma è inevitabile notare che negli anni Venti o Cinquanta del Novecento il movimento post coloniale o quello operaio erano più avanzati come organizzazioni. Una volta morto il comunismo vediamo piuttosto consolidarsi i movimenti di estrema destra, filo-nazionalisti, o di matrice religiosa. Non ho nostalgia per il comunismo, sarebbe ingenuo, però riconosco la sua importanza storica, mentre oggi manca un pensiero prospettico capace di dare un senso correttivo alle situazioni che viviamo.»

I militanti di Hong Kong stanno però dando segno di forte resistenza al potere per proteggere le libertà individuali.

«Credo che le battaglie per i diritti civili portati avanti negli anni Ottanta nei Paesi socialisti dell’Est siano un patrimonio dell’umanità, un richiamo fondamentale a tutti i comunisti dell’epoca. L’episodio di Piazza Tienanmen, che ricordo nel mio libro, mi appartiene e rimane in Cina, per quanto ci siano diverse situazioni sociali, una pagina non ancora conclusa, come il 1968 di Praga fu fondamentale per l’epilogo del 1989 a Berlino. C’è da sperare che se in Cina i nodi verranno al pettine sulle libertà individuali ciò avvenga con una transizione pacifica. È un Paese che ha già patito migliaia di morti per mano dell’esercito e, pur con tutte le sue differenze linguistiche ed etniche, rischia di precipitare in una situazione come quella siriana.

Ma seppur in modo diverso, la libertà individuale è enorme problema anche da noi in Occidente. La dichiarazione del 1948 sulla libertà di espressione non è in realtà garantita, basti guardare i social network, o l’uso che si fa anche nei tribunali delle opinioni politiche per mettere la gente in carcere. Penso al caso di Dana Lauriola, che deve scontare due anni di carcere, senza diritto alle pene alternative, per il blocco stradale durante una manifestazione no-Tav nel 2012 (anche Amnesty International Italia si è espressa a difesa dell’attivista, ndr).

Il riferimento è anche all’uso della sorveglianza speciale, che era stata richiesta dalla procura di Torino a carico di cinque foreign fighters per aver preso parte ai combattimenti in Siria al fianco dello Ypg e Ypj?

«Tra questi c’ero anche io e avrei potuto essere oggetto di una legge di epoca fascista che prevede si possa limitare la libertà del cittadino senza processarlo. La legge si basa su una futura presunta pericolosità stabilita dai giudici sulla base dell’analisi della personalità. Che poi la pericolosità si desuma dal fatto che cinque persone siano andate in Siria per combattere insieme alle popolazioni ribelli contro l’Isis, il califfato e lo jihadismo è scandaloso. Ed è anche paradossale che solo una persona, l’unica donna, Maria Edgarda Marcucci, sia stata colpita dalla restrizione. Lei è stata a fianco delle donne curde e ha continuato a dare loro solidarietà una volta tornata in Italia. Questo è stato ritenuto pericoloso, dato che chiunque manifesti una visione critica verso il capitalismo è considerato un pericolo sociale. È stato detto in aula, e questo la dice lunga su quanto il fantasma del comunismo, a trent’anni dal crollo del Muro, continui ad avere un ruolo nella cronaca.»

Da giornalista che stava viaggiando per realizzare un reportage nel Kurdistan siriano il programma è cambiato. Cosa le ha fatto decidere di unirsi alle milizie?

«L’impulso di dare un contributo c’è stato subito dopo i fatti del Bataclan a Parigi. Avevo vissuto lì, avrei potuto esserci anch’io tra le vittime insieme ai miei amici. Pensai che c’erano persone con le mie idee politiche che avevano l’opportunità di andare a combattere realmente contro chi aveva progettato quella strage. Volevo innanzitutto fare informazione, perché per prima cosa occorre che le persone sappiano cosa sta accadendo sul piano politico. Una cosa cosa che non succede perché l’informazione è semplificata, non si permette agli italiani di capire le responsabilità del loro paese e dell’Europa nel far degenerare la situazione siriana e la crescita dei movimenti jihadisti. Quando mi sono trovato sul posto ho visto che c’erano giovani britannici, americani, francesi di 18-20 anni, provenienti da entroterra non politici, erano camerieri, ragazzi di campagna, che dopo aver visto in tv cosa aveva fatto l’Isis alle minoranze religiose, alle donne, sono arrivati per combattere. Così ho trovato il coraggio.» (Dal reportage poi è nato nel 2017 un libro, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, ndr).

L’opinione pubblica si spiega spesso queste scelte come la ricerca di emozioni forti da parte di giovani annoiati. Poi c’è stata la morte di Lorenzo Orsetti, che aveva fatto la stessa scelta conoscendo il rischio che correva. Non è però un estremo opposto rispetto alla visione passiva con cui si vive l’impegno politico oggi?

«Sarebbe pericoloso non parlare di queste cose ai giovani. Negli Stati Uniti ci sono migliaia di morti ogni anno per futili motivi, per razzismo, per massacri per strada proprio come fa l’Isis. Una sparatoria tra i manifestanti del Black Lives Matter non è un atto diverso dal jihad, se fatto in nome del suprematismo bianco o di altre ideologie. Eppure si dice che non è terrorismo. Non solo certi imam indirizzano alla violenza, lo fanno anche i presidenti di stati potenti. E allora ci si deve opporre, senza usare le armi perché è meglio evitarlo.

Lorenzo Orsetti

Ma non lo si può evitare sempre, è inutile prendersi in giro. Se l’Isis mette in scacco le popolazioni anche nelle nostre città non si può rispondere con i fiori. Per molti secoli gli uomini dovranno ancora usare le armi a fin di bene contro chi le usa a fin di male. Oggi non si ricorda abbastanza che esistono il bene e il male. Se combatti contro il califfato e sei in rapporto con la popolazione che lo subisce e lo teme, ti ricordi cos’è il bene e il male, magari non in termini assoluti ma sicuramente in termini relativi. Chi dice che un ragazzo come Lorenzo Orsetti sia andato a combattere per noia, parla molto poco di Lorenzo e molto di sé, perché non può concepire che si possa lottare per il bene comune. Ci hanno educati che si fa qualcosa solo per il tornaconto personale: in realtà ci sono tante persone che agiscono senza questo principio. Bisogna prendere esempio da Lorenzo e riflettere. Non per forza imitarlo e idealizzarlo, ma riflettere.»