Sessant’anni fa esatti, il 24 giugno 1965, il Vigorelli di Milano si trasformava nel Ground Zero dell’italica isteria collettiva. I Beatles, quattro musicisti di Liverpool travestiti da scarafaggi, stavano mettendo a ferro e fuoco il mondo, letteralmente. La bomba conosciuta come “Beatlemania”, infatti, da un paio d’anni era deflagrata in UK per poi contagiare (anche se con un leggero ritardo) persino gli USA, dando il LA al fenomeno incontenibile del Brit POP e, in particolar modo, a quello delle Pop star capaci di riempire gli stadi.

I “quattro ragazzi che hanno sconvolto il mondo”, sbarcando dal treno nella capitale della moda e del panettone, non hanno trovato folle oceaniche ad accoglierli, ma hanno senza dubbio suscitato clamore e interesse tra il pubblico. Oggi, mentre celebriamo questo giubileo di urla forti al punto da coprire versi di canzoni che comunque non avremmo compreso, viene da chiedersi: fu davvero un evento epocale o solo un gran fracasso volto a non sfigurare con il resto del mondo?

Ora, non fraintendetemi. Rispettiamo la storia, la musica, il mito. Ma diciamocelo, il concerto dei Beatles al Vigorelli è assai lontano da ogni classifica o record battuto dai quattro menestrelli del Mersey, e viene nominato raramente, per non dire mai, nelle interviste o nelle biografie.

Occorre contestualizzare: in Italia, in quelle settimane, svettava in classifica “Il Mondo”, di Jimmy Fontana, “Ogni Mattina”, di Little Tony e, soprattutto, “La Pappa col Pomodoro”, di Rita Pavone…  direi che ogni ulteriore commento sarebbe superfluo. Solo dieci giorni prima del concerto, Paul McCartney aveva registrato “Yesterday” a Londra, negli studi di Abbey Road, la canzone dei record e da Guinness, che avrebbe dato in ascolto al mondo il 6 agosto successivo. Ma questo è unicamente un retroscena, utile forse solo a chiarire quanto quei quattro potessero essere considerati a pieno titolo degli alieni, in quel periodo, dalle nostre parti. Un paio di mesi dopo, inoltre, avrebbero stabilito un ulteriore record, imbattuto per decenni: 65 mila persone allo Shea Stadium di New York (a Milano 7.000 spettatori alle 15 e 20.000 alle 21).

Nel concreto, la scaletta del Vigorelli non differì dagli standard dei loro concerti:  Twist and Shout, She’s a Woman, I’m a Loser, Can’t Buy Me Love, Baby’s in Black, I Wanna Be Your Man, A Hard Day’s Night, Everybody’s Trying to Be My Baby, Rock and Roll Music, I Feel Fine, Ticket to Ride, Long Tall Sally. Dodici brani, otto dei quali originali, quattro standard rock. Mezzora e via, apertura per John, chiusura per Paul, una canzone a cranio per i due “gregari”, saluti e baci.

Ad aprire le danze c’erano artisti italiani discretamente affermati. Tra gli altri: Peppino di Capri e i suoi Rokeri, Fausto Leali e i Novelty, Maurizio e i New Dada, selezionati perché vincolati agli sponsor (tra cui la Coca Cola) e alla casa discografica coinvolta dall’organizzatore Leo Wachter, la Carisch.

Dalle tonnellate di testimonianze rilasciate da tali fortunati comparse, evinciamo che i Beatles erano allegri, gentili e alla mano, per quanto sempre distanti. Abituati a fuggire da folle impazzite, avevano adottato contromisure che, forse, in Italia sono risultate eccessive, ma il loro staff preferiva non correre rischi.

Pare siano usciti dall’albergo solo in piena nottata, per ammirare in pace il Duomo e ascoltare un po’ di musica dal vivo al “Charlie Max” di Piazza Diaz, dove suonavano Le Ombre di Augusto Righetti. Durante il breve soggiorno meneghino avrebbero mangiato chili di pastasciutta.

Ciò che fa davvero sorridere del passaggio meteoritico dei Beatles in Italia, soprattutto con gli occhi di chi sa del loro peso specifico nella storia della musica, non è tanto la reazione del pubblico – che tutto sommato ha imitato con dignità l’isteria di cui parlavano i telegiornali – quanto quello della critica. Eravamo talmente chiusi in noi stessi, miopi e ubriachi di pappa al pomodoro che, più di qualcuno, ha trattato i quattro scarafaggi con sufficienza, senza riuscire a mascherare la puzza sotto il naso.

“Un fenomeno di passaggio”, “Destinati a durare poco”, “musica bellina”, “privi di fascino” e altre amenità e lungimiranze del genere hanno trovato spazio in giornali e tra le chiacchiere di alcuni addetti ai lavori o ben pensanti, e la RAI non ha inteso inviare una troupe per un servizio almeno accennato. Ennesima “figura di emme”, insomma.

Quindi, cosa resta di quel concerto, dopo 60 anni? Resta la consapevolezza che il mondo stava cambiando, che la musica non sarebbe più stata la stessa e che l’ondata di cultura pop che stava travolgendo ogni cosa ha fatto tappa anche da noi. E resta la prova che una parte degli italiani, quando c’è da fare un po’ di baccano per una buona causa, non si tirano mai indietro, si buttano in mezzo, anche senza capirci molto, anche solo per vedere (di nascosto) l’effetto che fa.

Altri compatrioti, al contempo, non perdono mai l’occasione di fare bella figura tacendo (e io sono il primo della fila, naturalmente). 

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