Dopo settimane di navigazione nel Mediterraneo, la Global Sumud Flotilla è stata fermata in acque internazionali dall’esercito israeliano. L’obiettivo della missione era portare aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza e rompere simbolicamente il blocco che da anni isola un popolo sotto occupazione e assedio. Tra gli attivisti a bordo della nave Alma c’era anche Simone Zambrin, veronese, da tempo impegnato nei movimenti internazionali per la giustizia sociale. Rientrato in Italia da pochi giorni, ha partecipato mercoledì sera alla serata di anteprima dell’undicesima edizione di Mediorizzonti, dove ha raccontato la propria esperienza. Poche ore dopo è arrivato l’annuncio di un fragile “cessate il fuoco” tra Israele e Gaza.

Simone, innanzitutto ci racconti com’è stata la vita a bordo della Flotilla e come siete riusciti a coordinare un movimento tanto ampio?

«La cosa più difficile è stata tenere insieme un movimento globale, con persone provenienti da decine di Paesi diversi, lingue e culture differenti, modi diversi di intendere la lotta. Coordinare tutto, a livello logistico e politico, è stato un esercizio di equilibrio continuo. Abbiamo unificato quattro flotte partite da porti differenti: un lavoro immenso, a volte caotico ma anche pieno di umanità. Quella complessità riflette la forza di un movimento che, nonostante tutto, riconosce nella causa palestinese un principio universale di giustizia contro l’oppressione e la pulizia etnica.»

Qual era l’obiettivo concreto della missione e che significato politico aveva per voi attraversare il Mediterraneo?

«Volevamo portare aiuti umanitari, certo, ma soprattutto un messaggio politico: non possiamo accettare che un popolo venga rinchiuso, bombardato, privato dei diritti fondamentali. Quello che sta avvenendo a Gaza è un genocidio, e ogni giorno di silenzio è una forma di complicità. Non siamo arrivati a destinazione, ma abbiamo costretto governi e opinione pubblica a guardare la realtà. Penso alle manifestazioni di solidarietà in tutta Europa, alle piazze che si sono riempite anche in Italia: a Verona diecimila persone sono scese in strada per la Palestina, e questo per me è già un risultato enorme.»

Puoi raccontare cosa è accaduto nel momento in cui siete stati intercettati in acque internazionali?

«È successo lontano dalla costa, in pieno mare aperto. Israele non aveva alcuna giurisdizione su di noi: è stato un atto di pirateria contro una nave battente bandiera italiana. E non siamo stati gli unici: anche imbarcazioni di altri Paesi europei sono state aggredite. È un fatto gravissimo, che dovrebbe bastare per interrompere ogni collaborazione militare ed economica con Israele. La fregata italiana Alpino era a circa 150 miglia nautiche, ma non è intervenuta per proteggerci. Poi sono arrivate le motovedette: hanno abbordato la nave, ci hanno sequestrati, colpiti, minacciati. Io ho provato paura, ma anche una grande lucidità. Sapevamo che poteva succedere, ma non immaginavamo quel livello di violenza.»

Dopo il sequestro siete stati portati in carcere: in che condizioni siete stati detenuti e che cosa hai visto in quei giorni?

«Eravamo separati, uomini e donne in sezioni diverse, con persone di molte nazionalità. Alcuni hanno subito trattamenti durissimi, insulti, minacce. Ma la cosa più importante per me è dire che noi eravamo lì in solidarietà con i prigionieri palestinesi. Nel padiglione accanto al nostro erano detenute persone palestinesi: abbiamo cercato di farci sentire, di cantare, di urlare per dire che eravamo lì anche per loro. Gli avvocati ci hanno poi riferito che avevano saputo della nostra presenza. È stato un momento di umanità pura. Pensavo ai più di 11.000 palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, molti senza processo e senza prospettiva di liberazione. Quello che per noi è durato pochi giorni, per loro è la vita intera.»

A bordo con voi c’era anche Greta Thunberg: che ruolo ha avuto durante la missione e come ha vissuto quei momenti di violenza?

«Greta è stata tra le persone più colpite durante l’abbordaggio. È stata trascinata via con violenza, le hanno vandalizzato la valigia con insulti, messa in isolamento. Eppure, ha mantenuto una calma impressionante. La sua forza è nel trasformare la violenza in determinazione. E ha sempre detto una cosa chiara: non parlate di me, ma della causa. Credo che questa coerenza sia la sua forma più profonda di leadership.»

C’è chi ha definito la Flotilla una provocazione: come rispondi a queste accuse?

«Non può essere una provocazione chiedere il rispetto del diritto internazionale. Portare aiuti e denunciare un blocco illegale non è uno scontro, è un dovere civile. Chi ci accusa dovrebbe interrogarsi sulle vere provocazioni: le bombe, l’assedio, i rapporti economici e militari che i nostri governi mantengono con Israele. Questa è la complicità che va spezzata. Ora non si tratta di ripartire in mare, ma di mantenere viva la pressione politica: chiediamo che le istituzioni taglino ogni collaborazione con uno Stato che pratica l’apartheid e continua a commettere crimini contro l’umanità.»

Il cessate il fuoco annunciato in queste ore può davvero rappresentare un cambio di scenario?

«È un cessate il fuoco fittizio, perché arriva alle condizioni degli Stati occupanti e non mette fine né all’assedio né all’occupazione. Ogni tregua è positiva se salva vite, ma non basta a cancellare le responsabilità politiche. Finché non si affronteranno le cause strutturali – l’apartheid, il blocco, la negazione dei diritti fondamentali – nessuna pace sarà reale. La priorità ora è che i governi europei riconoscano la propria complicità e agiscano di conseguenza.»

Dopo tutto ciò che hai vissuto, che cosa ti resta di questa esperienza e che direzione vedi per il movimento?

«Resta la consapevolezza che un movimento come la Global Sumud Flotilla non può fermarsi, anche se deve cambiare forma. È fragile ma potente, perché nasce dal basso e unisce persone che rifiutano l’indifferenza di fronte a un genocidio. Noi abbiamo attraversato il mare, ma la vera navigazione adesso è quella politica: quella che deve portare alla giustizia, alla fine dell’assedio e, finalmente, alla pace.»

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