«La morte dell’informazione è a Gaza, perché i giornalisti occidentali e stranieri comunque non possono entrare. E i colleghi palestinesi vengono uccisi come chiunque altro nella Striscia ridotta ad un enorme cumulo di macerie». Così Giuliana Sgrena, 76 anni, piemontese di Masera (un migliaio di anime a 30 chilometri dalla Svizzera), già inviata di guerra de il manifesto che ora collabora con RaiNews24, la radio della Svizzera Italiana e il settimanale Die Zeit.

Ha pubblicato una sorta di diario professionale: Me la sono andata a cercare. Diari di una reporter di guerra (Laterza, pagine 200, euro 17). Lo ha presentato alla Festa regionale dell’ANPI a Limena, mentre CUC CinemaUno l’ha invitata a commentare il film Il Nibbio – che racconta la storia del suo rapimento e dell’uccisione di Nicola Calipari – durante la proiezione nella rassegna estiva al Bastione del Moro di Padova.

«Per vent’anni sono stata svillaneggiata, colpevolizzata, insultata. Alla fine, mi sono convinta: sì, me la sono andata a cercare, ma non solo in Iraq, anche in Algeria, Somalia, Afghanistan. In tutti i luoghi difficili, i paesi in guerra, ho ripercorso i miei viaggi ed è stata ovunque la condizione per fare il mio mestiere, per cercare le notizie, per verificarle, per fare informazione. E a chi per vent’anni mi ha accusato di essere un’assassina rispondo che a sparare a Nicola Calipari sono stati gli americani. Ma non posso dimenticare la sensazione di qualcuno che ti muore addosso. È stata la persona che mi ha salvata due volte: dai rapitori e dagli americani. E io vivo da sopravvissuta» afferma nella conversazione riservata a VeZ.

Giuliana Sgrena mantiene sempre il punto di vista femminile, in particolare nel quadrante del Medio Oriente: «Penso che sia fondamentale il ruolo delle donne. Erano in prima fila anche nelle rivolte arabe, che purtroppo non sono andate a finire bene nemmeno dove sembrava che si vedesse un’uscita più democratica, come in Tunisia. Comunque, un ruolo molto importante l’hanno giocato le donne kurde siriane nel combattere l’ISIS. Mi dicevano che lo facevano in nome di un progetto di società completamente alternativo. Quando entravano nei villaggi dove prima c’era l’ISIS le donne si rivolgevano a loro con una grande speranza rispetto ai loro diritti. Donne che si toglievano i veli, che festeggiavano. È ciò che si tenta di costruire nel Rojava: Stato smilitarizzato, con la parità di genere. Per altro, l’avevo già vista nel Kurdistan turco con i sindaci che amministravano Comuni nel sud».

Poi subito aggiunge con una punta di ironia: «Non va dimenticato un aspetto religioso: se gli islamisti del Califfato venivano uccisi da una donna, non andavano in paradiso… Quindi diventava una vergogna, un’offesa, perfino al di là della perdita della vita».

E da cronista ricorda: «Sono state queste donne siriane che hanno coniato lo slogan “Donna, vita, libertà”, che poi è stato fatto proprio dalle donne afghane, che devo dire poverette non hanno margini con il regime dei taleban. E poi soprattutto dalle donne iraniane, che con una rivendicazione femminista contro l’imposizione del velo, sono riuscite ad avere il sostegno da diversi settori della società: uomini e donne, diverse generazioni, diverse appartenenze religiose ma soprattutto appartenenze etniche. È la prima volta in Iran che scoppia una rivolta che appariva anche come una rivoluzione con la partecipazione di tutte le componenti etniche. D’altra parte, la rivolta era partita proprio dopo l’uccisione in carcere di una donna curda».

Sull’Iran stretto fra regime e guerra Giuliana Sgrena riflette: «Fin dall’inizio Khomeini aveva imposto il velo come identificazione della donna musulmana, non della donna iraniana. Se mai la rivolta avrà successo, vorrà dire che non ci sono più gli ayatollah al potere perché sono incompatibili le rivendicazioni delle donne libere con gli ayatollah. Poi c’è l’intervento occidentale: ipocritamente come avevano fatto in Afghanistan, dicendo che avrebbero aiutato le donne, in realtà  hanno aiutato solo il potere perché con questo intervento militare si rafforza il potere che invece era un po’ in difficoltà».

Amaramente, da cronista chiosa: «Devo dire che pensavo che la rivolta delle donne iraniane facesse capire alle femministe in giro per il mondo che il velo è il simbolo dell’oppressione delle donne. Purtroppo, non è così: la solidarietà si è manifestata tagliando una ciocca di capelli e poi le donne iraniane sono state archiviate».

Giuliana Sgrena è disincantata sul fronte professionale: «Siamo alla disinformazione, all’informazione a senso unico. Giornalisti che passano il microfono a questi politici che dall’uno all’altro possono dire quello che vogliono. Non c’è mai una contestazione. Il contraddittorio non esiste né tra forze politiche, ma neanche i giornalisti riescono a contrastare affermazioni che sono assolutamente infondate. È veramente terribile perché ci va di mezzo la democrazia: non c’è un’informazione che, appunto, forma l’opinione pubblica e quindi si lascia molto ai social che ovviamente non sono tenuti a rispettare nessuna regola. E siamo diventati un Paese  in cui quasi la metà della popolazione è analfabeta funzionale, quindi non capisce quello che succede davvero».

Infine, con Giuliana Sgrena si torna alla guerra che oggi rimbalza fra piccoli e grandi schermi: «Anche con il libro ho cercato di raccontare come è cambiata l’informazione negli scenari di guerra. Dopo il periodo in cui gli inviati  non venivano più mandati da nessuna parte e ci si affidava ai locali, c’è stato un ritorno dei giornalisti con la guerra in Ucraina. Certo, in Russia non si va perché non ci si può arrivare. Ma in Ucraina non è che poi sia proprio un’informazione libera:  ti intruppano e ti fanno intervistare, vedere, riprendere ciò che vogliono. E quest’aspetto viene coperto dal fatto che è politicamente corretto stare dalla parte dell’Ucraina. Quindi nessuno mette in discussione se l’informazione non è approfondita, se c’è un’esibizione di armi. Sembra innocua, invece ti inculca l’idea che devono combattere fino alla vittoria. Ma una vittoria militare ucraina non ci sarà mai: potranno continuare a combattere all’infinito distruggendo tutto».

In Palestina, invece, con il genocidio scatta anche la morte del giornalismo: «Non esiste nessun rispetto per chi fa informazione, come per chi lavora in un ospedale o cerca di sfamare la popolazione. E non si vogliono testimoni. Comunque ammazzano tutti, indistintamente. È tremendo come ogni tanto mi sento dire “Ah, ma sarà vero quello che succede a Gaza visto che a informare sono solo i palestinesi?”. A questo terribile paradosso siamo ormai arrivati…».

Ernesto Milanesi

Articolo uscito su Vez News, partner di Heraldo.

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