L’11 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladić, colui che in seguito verrà definito dalla stampa internazionale come “il macellaio di Bosnia”, entrarono nella cittadina bosniaca di Srebrenica, “protetta” dai caschi blu olandesi perché a maggioranza musulmana. Srebrenica doveva essere dunque una “zona sicura”, designata dalle Nazioni Unite per accogliere i civili in fuga dai combattimenti tra il governo bosniaco e le forze separatiste serbe durante la disgregazione in atto dell’ex Jugoslavia.

Invece quel giorno, sotto gli sguardi ciechi e colpevoli dei soldati ONU, ragazzi e uomini dai 14 ai 77 anni furono separati da donne, bambini e anziani per poi essere uccisi con un colpo d’arma da fuoco alla nuca e gettati in fosse comuni, successivamente demolite e disperse tra altri siti di sepoltura, per nascondere le prove dell’eccidio. Il numero ufficiale delle vittime è 8.372. Di queste, 1.700 risultano ancora disperse poiché i resti delle vittime furono smembrati in diverse fosse comuni e questa è la ragione del difficile rinvenimento. Intere generazioni di uomini cancellate per sempre con la velocità con cui si schiaccia un fastidioso moscerino. Un paese abbandonato dalla comunità internazionale al disincanto, alla rassegnazione, alla dolorosa ricerca di punti di riferimento spazzati via dalla violenza di una guerra assurda, come d’altronde lo sono tutte le guerre.

C’è un video che chiunque può vedere su Youtube e che ritrae il generale Ratko Mladić la mattina del 12 luglio di 25 anni fa, mentre rassicura la popolazione di Srebrenica. Circondato dai suoi militari, “il macellaio” spiega che a nessun abitante di Srebrenica sarà fatto del male. Parla di liberazione. Racconta al giornalista che ha di fronte di come i suoi uomini avessero portato in città cibo, acqua e medicine per la popolazione locale. Alla fine del video si vede Mladić parlare con un bambino musulmano di 12 anni: gli chiede di essere paziente e gli dice che chi avesse voluto rimanere a Srebrenica, avrebbe potuto farlo.

È un robot, Mladić. Un volto metallico che pare muoversi non per l’afflato di vita che lo attraversa, ma per impulsi elettrici etero indotti. Nulla a che vedere con un essere dagli attributi umani. In quel momento i suoi uomini avevano cominciato già da 24 ore, cioè dal pomeriggio dell’11 luglio, a radunare e uccidere tutti i maschi in età militare della città, e nel giro di 72 ore più di ottomila bosniaci musulmani verranno uccisi nel corso del più grave genocidio avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Fu in quell’occasione che proprio i militari serbi resero popolare un termine destinato a divenire in seguito uno dei più agghiaccianti trend topic sulla stampa di tutto il mondo: “pulizia etnica”.

In attesa dei resti per la cerimonia annuale di sepoltura a Potočari, foto di Fabiana Bussola

Gli scontri intorno alla zona di Srebrenica erano cominciati già nel 1992, quando la Bosnia dichiarò la sua indipendenza dalla Yugoslavia con un referendum fortemente voluto dall’Europa: il 6 aprile di quell’anno i ministri degli Esteri della Comunità Europea si riunirono in Lussemburgo e riconobbero la Bosnia-Erzegovina come Stato indipendente.

Ma la Bosnia era anche la più eterogenea tra le repubbliche federali che formavano l’ex Yugoslavia: la maggioranza dei suoi abitanti è di religione musulmana, ma c’è anche una grossa minoranza di serbi ortodossi e una più piccola di croati cattolici. E infatti i serbo-bosniaci boicottarono il referendum e, una volta proclamata l’indipendenza, iniziarono una guerra contro il governo bosniaco appoggiati dal governo serbo di Slobodan Milošević, per ottenere l’annessione alla Serbia della loro regione. L’obiettivo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che sarebbe stato più facile da annettere alla Serbia una volta arrivati al tavolo delle trattative. Fu questo il motivo per il quale i miliziani serbo-bosniaci e serbi si accanirono con particolare crudeltà sulle comunità musulmane, che venivano sistematicamente distrutte e gli abitanti espulsi.

Srebrenica e i paesi nella valle della Drina erano uno dei principali ostacoli al progetto di omologazione etnica e religiosa del paese, così nel 1995 i serbi concentrarono nella regione i loro sforzi militari. Una polveriera dunque, destinata per forza di cose ad esplodere. Oltretutto non c’è dubbio che, al momento dell’indipendenza, il paese non possedesse alcuno dei requisiti fondamentali della sovranità, come scrive Halid Čaušević, discendente del massimo esponente religioso bosniaco-musulmano della prima metà del secolo: «Lo Stato, per essere tale, deve avere tre elementi fondamentali: territorio, popolo e potere. La Bosnia-Erzegovina non aveva né il primo, né il secondo, né il terzo. Aveva solo Sarajevo e un paio di altre città.» Ed è legittimo chiedersi a questo punto come l’Europa sia potuta essere tanto miope, ingenua o forse solo cinica da scegliere di non intervenire per mediare il difficile passaggio della Bosnia da membro di una repubblica socialista federale a paese indipendente e sovrano.

Cerimonia di sepoltura a Potočari, foto di Fabiana Bussola

L’obiettivo era probabilmente prevenire un allargamento del conflitto, riaffermando, nel contempo, il principio dell’inviolabilità dei confini. Ma la verità è che la crisi bosniaca si trasformò, invece, in aperto scontro armato proprio nei giorni successivi al riconoscimento dell’indipendenza. Certo, non fu la causa principale dell’esplosione del conflitto. Il riconoscimento avvenne in una fase nella quale si erano già accumulati una serie di elementi che avrebbero reso comunque difficilmente evitabile lo scontro armato, ma contribuì non poco all’escalation della crisi. La Comunità Europea, infatti, non solo rinunciò a vincolare il riconoscimento dell’indipendenza ad un accordo su un nuovo assetto politico e costituzionale per il paese, ma pretese un referendum che non fece altro che irrigidire ulteriormente le posizioni dei due opposti fronti.

Si volle a tutti i costi applicare anche alla Bosnia la procedura per il riconoscimento degli Stati messa a punto dalla Commissione Badinter (la Commissione Arbitrale della Conferenza sulla Pace in Yugoslavia che doveva garantire consulenza legale), benché palesemente non sussistessero le condizioni minime per la sopravvivenza del nuovo Stato, né vi fosse la comune volontà di garantirne l’integrità attraverso una leale supervisione internazionale. Più o meno consapevolmente dunque, l’Europa lasciò che la Bosnia implodesse in se stessa, e l’idea che un referendum popolare potesse sostituirsi a una mediazione della comunità internazionale e garantire fondamenta più stabili al nuovo stato si rivelò prevedibilmente fallimentare. Srebrenica ne fu la più tragica conseguenza.

Ma finché l’Europa non accetterà di rivedere la propria narrazione di quei tragici eventi, assumendosi la sua parte di responsabilità politica per la spirale di violenza in cui cadde, sotto i suoi occhi distratti, un’intera area geografica a pochi passi di distanza, non ci sarà pace per il popolo bosniaco.

Per il genocidio di Srebrenica, il Tribunale penale internazionale per la Ex-Jugoslavia ha ascoltato 4.650 testimoni in 10.800 giorni di udienze. Ne sono risultati 2,5 milioni di pagine di trascrizioni, numeri che non sono tuttavia bastati a scrivere una verità storica condivisa. Verità che anche quest’anno i sopravvissuti di Srebrenica chiedono durante la venticinquesima Marcia per la pace, partita la mattina dell’8 luglio con un centinaio di partecipanti rispetto ai centomila previsti per via delle restrizioni post Covid-19, e che terminerà proprio oggi. È il cammino di circa cento chilometri che riprende a ritroso quello compiuto dalle migliaia di bosniaci musulmani che in quel luglio del 1995 cercarono di mettersi in salvo dalle milizie serbo-bosniache.

Il trasporto delle salme è affidato ai familiari delle vittime,
foto di Fabiana Bussola

L’aspetto più preoccupante è quello del revisionismo sempre più diffuso sui fatti di Srebrenica, a tratti addirittura rivendicato negli ambienti istituzionali e culturali in Serbia e che sembra ricevere legittimazione anche a livello internazionale: dal tentativo di minimizzare il numero delle vittime al ribaltamento della ricostruzione storica, ovvero il descrivere la presa di Srebrenica del luglio 1995 come un’operazione di autodifesa e liberazione anziché come un crimine contro l’umanità, quel che è in gioco è il rispetto dovuto ad un popolo che in quel massacro ha perso non solo i suoi uomini, ma anche la sua Memoria.