Ogni giorno 33mila nuovi bambini accedono alla rete di internet. Il dato annuale parla di oltre 12milioni di nuovi utenti, che diventano in gran parte potenziali vittime di chi, nella rete, cerca di dare sfogo ai propri istinti più neri.

E non stiamo parlando solo dell’annosa questione del bullismo e del cyberbullismo, temi che emergono con prepotenza dalle cronache ogni giorno, ma anche di un crimine ancora più orribile come quello della pedopornografia e della violenza sessuale sui minori.

Un crimine che su scala globale vede migliaia di piccole vittime innocenti e migliaia di orchi pronti ad approfittare delle falle dei sistemi di sicurezza informatici e di un sistema, quello del world wide web, che ha dato loro nuovi, infiniti strumenti per portare a termine le loro azioni.

A combattere tutto questo ci sono, nel mondo, circa un migliaio di poliziotti e investigatori informatici che tentano quotidianamente di fermare questi abusi e salvare le piccole vittime, la cui età va dai pochi mesi di vita fino all’adolescenza. E a proposito di adolescenza, cioè che aiuta i criminali è la larghissima diffusione di smartphone fra i bambini e adolescenti, che risultano per questo ancora più vulnerabili, perché facilmente avvicinabili sui social network. A quel punto circuirli diventa molto più semplice. I sensi di colpa e la mancanza di comunicazione con i genitori e, in generale, il mondo adulto, poi, concorrono a fare il resto.

I bambini nelle foto

Sono questi solo alcuni degli elementi emersi dalla visione di “The children in the picture“, docufilm di Akhim DevSimon Nasht proiettato ieri nel corso del quarto appuntamento con Mondovisioni. Un film che racconta la creazione e il percorso della task force australiana “Argos” che ha il compito di combattere, appunto, la diffusione e la perpetrazione di crimini orribili come quello di stupro e pedopornografia. Una rete, quella dei criminali, che purtroppo cresce di anno in anno, di pari passo con le tecnologie e con sistemi sempre più sofisticati di decriptazione di chat, video e immagini.

Ciò che impressiona maggiormente, nel corso della visione, è proprio l’enorme quantità di persone coinvolte in questa rete mondiale che, proprio grazie al web, non ha più alcun tipo di confine e si nutre delle esperienze e delle “competenze” di pedofili di ogni parte del globo. Lascia l’amaro in bocca comprendere come la costituzione di questo tipo di iniziative investigative, fondamentali “perché anche un solo bambino salvato dà senso al nostro lavoro“(come afferma giustamente uno dei protagonisti del documentario) rappresenti però una sorta di secchiello con cui si vuole svuotare il mare. Si tratta di un’ondata sempre più imponente a cui è sempre più complicato porre un argine e che necessità di una maggior consapevolezza da parte di tutti.

I poliziotti intervistati, al centro della narrazione, raccontano come, nel corso delle loro indagini, sia emersa molto presto la necessità di infiltrarsi in gruppi chiusi di pedofili provenienti da ogni angolo del pianeta, per comprenderne l’architettura e l’organizzazione, individuare le situazioni in cui si sta svolgendo il crimine (quelle in cui di fatto si “produce” il materiale che viene poi diffuso in rete) e di, drammaticamente, appigliarsi ad ogni singolo dettaglio fornito dalle immagini che si riescono così a ottenere per riuscire a capire dove è avvenuto il crimine e tentare così di individuare il singolo criminale e fermarlo. A volte basta un dettaglio dell’arredamento della stanza in cui avviene il fatto, altre volte l’accento di chi parla nel video… Un lavoro certosino, estenuante, fatto di dettagli, intraprendenza e tanta competenza, che a fronte di centinaia di fallimenti porta, ogni tanto, a salvare qualche bambino.

Indubbiamente un’attività che impone di guardare, sminuzzare, analizzare ogni singolo giorno centinaia di foto e video orribili, che ritraggono scene da voltastomaco a cui è impossibile abituarsi ma che è necessario scandagliare, proprio per poter salvare più bambini possibile e assicurare alla giustizia chi commette questo tipo di reati.

Da quando è stata istituita la task force una quindicina d’anni fa, si racconta nel film, sono stati salvati più di mille bambini e assicurati alla giustizia altrettanti “offender”, come vengono definiti i criminali dagli stessi poliziotti. Una parola che rende molto bene ciò che fanno queste persone e che lascia comunque una sensazione di ambivalente impotenza, nel senso di incapacità di poter fare davvero qualcosa per arginare questo atroce fenomeno. Eppure, nel nostro piccolo, ciascuno di noi può dare il suo contributo alla causa. Come? Informando, parlando del fenomeno, cercando di allertare il maggior numero di persone possibile, ad esempio.

Il dibattito

Dopo la proiezione del film è stato il momento del dibattito di approfondimento, condotto dalla giornalista Tiziana Cavallo con la psicologa e psicoterapeuta Ilenia Bozzola e la medico psicoterapeuta Irene Tommasi.

«Sappiamo tutti quali rischi ci sono nella rete, ma ne siamo consapevoli fino in fondo?» chiede la dottoressa Bozzola. «Tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa, a cominciare dalla comunicazione, dalla diffusione di questo tipo di notizie» aggiunge la dottoressa Tommasi. «Entrare dentro questo tipo di perversione ci aiuta a stanarla e a vincerla», aggiunge poi. «Nel film sono state censurate le immagini, giustamente, ma questo ci fa capire quanto sia difficile riconoscere la dimensione della violenza. Non va nemmeno chiamata pornografia, che legittima in qualche modo, ma violenza pura e dura. La censura ci tiene lontani per risparmiare quelle energie che ci servono per una lotta più profonda. Quello che succede dentro ciascuno di noi e anche nelle vittime è questa forma di allontanamento del pericolo. C’è una prima fase in cui si fa fatica a capire cosa stiamo affrontando. Vale per le vittime, che si sentono in colpa e fanno fatica a parlarne con i genitori. L’unico modo per stanare questa cosa è parlarne, anche per aiutarci a riconoscerla.»

Da sinistra a destra Ilenia Bozzola, Tiziana Cavallo e Irene Tommasi nel corso del dibattito

Cosa si può fare, però, per aiutare le vittime di questi abusi? «La parola chiave è cura, sia nei confronti dell’abusato, sia nei confronti dell’abusante», spiega la dottoressa Bozzola. «Nel concetto di cura c’è poi quello di tempo, perché ci vuole pazienza e non sempre è chiaro il motivo del disturbo o del disagio. Nella mia esperienza è difficile che qualcuno arrivi chiedendo aiuto partendo direttamente dal trauma subito. A livello inconscio, inconsapevole, spesso si rimuovono quei ricordi. La mente chiude questo tipo di esperienze in un cassetto per tentare di sopravvivere e andare avanti. Spesso le vittime di abusi arrivano dagli psicologi per altri motivi, tipo le difficoltà di relazione con le persone. Un evento traumatico crea una frattura all’interno della persona e a livello terapeutico è utile individuarla per rielaborarla e risanarla. L’obiettivo è quello di fare un lavoro di ricostruzione di sé, sulla fiducia di sé e negli altri. Spesso sono persone che fanno fatica a sentirsi al sicuro e a fidarsi degli altri.»

Oggi la prevenzione informatica è diventata materia obbligatoria nelle scuole. Per gli studenti ma anche per i loro genitori, che hanno la possibilità di capire il mondo frequentato dai propri figli e attivare le antenne in caso di qualche problema. Occorre, in questo senso, attivare un’educazione consapevole dell’utilizzo della rete e dei social, che nonostante abbiano un’età limite per poter accedere, in realtà spesso sono usati dai minori che entrano con profili falsi o con l’account dei genitori, avendo così libero accesso alla rete. Vengono sottovalutati i rischi e le esposizioni all’interno di queste realtà. «I social lavorano sull’algoritmo e sugli interessi manifestati dal singolo utente» spiega ancora Bozzola. «La cosa più drammatica è che tutto ciò che facciamo in rete viene utilizzato per strumentalizzare le persone e se questo accade con gli adulti, che in generale sono più consapevoli, a maggior ragione avviene con i ragazzi, ancora più influenzabili. Questo genera dinamiche che possono abbassare la guardia e rendere ancora più vulnerabili le potenziali vittime.»

«Gli strumenti informatici vengono utilizzati in età sempre più basse e questo porta a essere sempre più vulnerabili», conclude la dottoressa Tommasi. «Conoscere queste dinamiche, i pregi e i limiti della rete, le possibilità di poterci mettere in sicurezza è estremamente importante. La cosa più importante, però, è quella di creare un dialogo con i nostri figli, quel ponte e quel porto sicuro che permette ai bambini e ai ragazzi di qualsiasi età di poter richiedere aiuto senza sentirsi giudicati. Magari di fronte a situazioni lievi è importante cogliere l’occasione per creare quel dialogo che può essere poi utile quando si presentano casi più gravi.»

Un’altra immagine della serata di ieri

© RIPRODUZIONE RISERVATA