Il 2023 ha segnato il record di aumento della spesa militare nel mondo, trainato dal perdurare dei due conflitti che interessano l’Europa e il quadrante mediorientale, coinvolgendo Paesi con potenziale nucleare. Come denunciato da don Luigi Ciotti, «nel mondo oggi ci sono 59 guerre, questa è una follia distruttiva. E dove c’è guerra, si trova corruzione e mafia, droga e armi vanno sempre a braccetto».

Il diritto alla sicurezza è un concetto che viene sbandierato ovunque, con la contraddizione però di cercare la pace soltanto nell’equilibrio degli equipaggiamenti militari. Sarà anche economicamente proficuo ma resta un contro-senso. Va preservata la libertà delle persone, la vita e i diritti e questo obiettivo si raggiunge soltanto con una logica di disarmo, non certo di deterrenza armatissima.

I database: SIPRI e gli altri

Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) è un centro di ricerca indipendente che studia i conflitti e i traffici di armamenti, con dati aggregati su base quinquennale per neutralizzare i picchi. L’ultimo rapporto annuale riguarda il periodo 2019-23 e viene messo a confronto con il periodo 2014-18.

SIPRI utilizza il TIV (i.e. trend indicator value), una «unità comune che permetta il confronto all’interno di un sistema unico», che si basa sui costi di produzione dei singoli armamenti e non sul valore finanziario. Ecco perché, nonostante il fiorire di denunce indignate sui media nazionali, è scorretto confrontare il TIV di SIPRI con il PIL, la sua spesa militare o il valore finanziario delle licenze di import/export.

Questo va fatto, almeno in Italia, sulla base della “Relazione sulle operazioni autorizzate”, un documento di centinaia di pagine, previsto dalla legge in materia di armamenti (Legge 185/90 e successive modifiche) che spiega l’attività dell’Italia nel commercio di. Proviamo dunque a fare chiarezza.

Il mondo

SIPRI ha calcolato che nel periodo 2019-23 il volume di armi commerciate a livello globale, espresso in TIV, evidenzia un calo del 3,3% legato all’inclusione di due anni di profonda crisi (2020 e ’21). Nel 2023 si sono superati – per la prima volta dal 2009 – i 2,3 miliardi di euro, con un incremento del 6,8% che riguarda, altra prima volta, tutti e cinque i continenti.

Nelle parole di SIPRI, «non c’è zona del mondo in cui le cose siano migliorate». Si tratta di un aumento netto annuale di oltre 200 miliardi e fa specie notare che da solo sia pari a quanto erogato complessivamente nel 2023 come aiuti pubblici allo sviluppo mondiale.

In valore assoluto, la classifica di chi ha speso di più vede in testa gli Stati Uniti (860 miliardi di euro, +2,3%), seguiti da Cina (278 miliardi, +6%), Russia (102 miliardi, +24%), India (78,6 miliardi, +4,2%) e Arabia Saudita (71,2 miliardi, +4,3%). L’Italia si colloca al 12mo posto, con 33,3 miliardi e un calo del 5,9% anno su anno.

L’Europa e la NATO

Rivitalizzato il Patto Atlantico, la spesa complessiva dei 31 membri NATO raggiunge 1,3 miliardi, il 55% della spesa mondiale. Gli USA da soli contano per il 68% della spesa NATO (e il 37% della spesa mondiale), mentre gli Stati UE tutti insieme coprono un altro 28%. Con un +16% anno su anno, la spesa militare europea segna il record di aumento post Guerra Fredda. I principali importatori delle armi europee, secondo SIPRI, sono in Asia, Oceania e Medio oriente, dove si trovano nove dei dieci maggiori clienti. Sul fronte opposto, il 55% delle armi importate arriva dagli USA.

A livello UE, si sono spesi circa 295 miliardi di euro, registrando un +20% sul 2022 e un + 50% rispetto a dieci anni fa. Tra gli aumenti più importanti troviamo Turchia (+106%), Belgio (+430%) e Polonia (+1138%), anche se SIPRI considera pure gli armamenti poi donati all’Ucraina, che contano per il 96% di quanto speso dalla Polonia e impattano su tutte le percentuali.

L’Italia

SIPRI evidenzia un calo nel quinquennio di riferimento del 5,9% nella spesa militare italiana, in equivalenza TIV. L’Italia però è uno dei Paesi che più investe nella ricerca sui nuovi sistemi d’arma, con 10 miliardi di euro previsti per il 2024 nel Bilancio dello Stato e una spesa militare complessiva “diretta” per il 2024 di circa 28 miliardi di euro, in aumento di oltre 1,4 miliardi rispetto alle previsioni per il 2023.

Curiosando invece nella Relazione al Parlamento, che parla in euro sonanti di guadagno, lo storico non appare regolare e viene influenzato da numerosi fattori, spesso esogeni. Dai 2,1 miliardi di autorizzazioni export del 2013, si arriva – grazie alle mega-commesse saudite – ai 15 miliardi del 2016 per poi scendere negli anni successivi. Nel 2022 le autorizzazioni cumulano di 5,3 miliardi che sale a 6,3 miliardi nel 2023.

L’industria italiana della distruzione

In totale, il valore delle licenze rilasciate per il trasferimento di materiali d’armamento è stato di 7,6 miliardi di euro, di cui 6,3 miliardi export e 1,3 miliardi import (esclusi movimenti intra-UE). Rispetto al 2022, aumentano sia le autorizzazioni individuali (+24% per 4,8 miliardi), sia le licenze globali per co-produzioni con Paesi UE-NATO (+37% per 1,5 miliardi).

Il totale complessivo del controvalore di armi uscite dall’Italia, cioè quanto incassato dal sistema Paese nel 2023 per la vendita di armamenti, supera 7 miliardi di euro. Fa sorridere quanto si discosti (molto o moltissimo, a seconda di chi spara numeri) da quanto millantato dalla megalomane lobby industriale.

I nostri clienti

I Paesi destinatari di autorizzazioni nel 2023 sono stati 82, stabili e distribuiti per metà verso Paesi UE/NATO e metà extra. Al primo posto la Francia (465 milioni), seguita da Ucraina (417 milioni), USA (390 milioni) e Arabia Saudita (363 milioni), che spicca tra i Paesi preoccupanti per tipo di governo o violazioni di diritti umani. Elenco che comprende anche Turchia, Egitto, Azerbaijan e molti altri.

Le 15 licenze verso l’Ucraina sono state concesse a un Paese in stato di guerra, violando la Legge185/90, il Trattato ATT e la Posizione Comune UE, tutti vincolanti per l’Italia. Colpisce come le donazioni siano state giustamente votate in deroga dal Parlamento, mentre non risultano votazioni per export remunerati di aziende italiane. Una deroga implicita non sembra in armonia con la legge.

Per Israele, la Relazione riporta la maggior attenzione posta e come «nel 2023, il valore delle esportazioni (9,9 milioni) è rimasto stabile, mentre quello delle importazioni ha realizzato 31,5 milioni». E poi che «è stata sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti». Non si citano però le esportazioni relative a licenze precedenti, che continuano serenamente.

Le nostre esportazioni

La Relazione utilizza una terminologia neutra, quasi a prendere distanza dall’utilizzo reale di queste merci. La distruzione di cose e la morte di esseri umani non sfiora le duecento pagine di testo, dove si parla di “materiali” (84% dell’export). Spulciando gli allegati, ci si toglie il dubbio. Sono armi, letali: bombe, siluri, razzi e missili (993 milioni), munizioni (889 milioni), aeromobili (679 milioni) e veicoli (526 milioni).

I principali operatori autorizzati sono la statalissima Leonardo (27% del totale), e la “tedesca” Rwm Italia (13%), famosa per le sciocche polemiche sull’uso in Yemen da parte di Arabia ed Emirati. Come se le altre bombe vendute al mondo fossero invece mangime per uccellini. Seguono Iveco defence vehicles (11%) e Avio (8%).

L’analisi di “Banche Armate”

La “Campagna di pressione alle banche armate” è nata nel 2000 da tre riviste cattoliche, Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di Pace, per evidenziare il “debito odioso” tra dittature africane e banche italiane ma continua a operare con nuove iniziative di informazione e influenza sulle politiche dell’Italia.

La loro analisi riporta transazioni bancarie relative all’esportazione di armamenti per 4,2 miliardi, cifra che comprende gli importi segnalati e gli imperscrutabili importi accessori. Vanno poi aggiunti 1,9 miliardi di transazioni relative a programmi intergovernativi (che uno immagina con Governi sani e giusti, e invece) e 1,2 miliardi per le licenze globali. Unicredit è sempre la “più armata” con un terzo delle transazioni, seguita da Intesa Sanpaolo e Deutsche Bank con il 19% del totale ciascuna. Il terzo rimanente è suddiviso tra i numerosi istituti del sistema italiano.

Il Governo Meloni e la 185/90

La buona notizia è che, per la prima volta da anni, la Relazione 2023 è giunta al Parlamento entro i termini previsti dalla legge, addirittura prima del 31 marzo. Il Governo Meloni ha quindi sanato un vulnus molto grave, visto che i ritardi hanno più volte impedito una serena discussione sul tema.

Sul fronte opposto, va rilevato il tentativo di svilire la Legge 185/90 attraverso una proposta di revisione già approvata dal Senato e ora nelle mani del Parlamento, che punta alla “semplificazione”, con l’eliminazione degli obblighi a riportare numerose informazioni.

La società civile, il cui ruolo nel plasmare la 185 fu imprescindibile, è già in mobilitazione con oltre 80 organizzazioni, denunciando come una legge che a suo tempo aveva reso l’Italia un esempio illuminato da seguire a livello europeo verrebbe ora a perdere le principali tutele di trasparenza. Insomma, speriamo e lottiamo affinché l’articolo che avete letto non sia l’ultimo di questo tipo.

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