Gli USA non hanno mai compreso l’Afghanistan. Non solo quello. Di tutte le guerre combattute  contro un nemico non occidentale, gli americani ne hanno vinte due, quella contro il Giappone, grazie all’impiego di due bombe atomiche e quella del Golfo (1990) grazie alla debolezza dell’avversario e alla potente alleanza dispiegata. Per il resto solo sconfitte: dalla Corea al Vietnam, dall’Iraq all’Afghanistan, per non parlare di Siria, Libano, Somalia e addirittura ISIS, visto che il Califfato si sta pericolosamente ricostruendo in Siraq.

Il problema è quindi culturale e deriva dall’incapacità di comprendere come l’esportazione di modelli e stili di vita occidentali costituisca una ricetta valida, sempre ed ovunque. Nel caso afghano sono stati commessi vari errori: una architettura statuale (“nation building”) che non è riuscita a radicarsi tanto da resistere al ritorno dei Talebani; l’equiparazione del terrorismo alla controinsurrezione (ignorando le cause profonde di quest’ultima), l’aver affidato il mantenimento dell’ordine agli infidi e rapaci “Signori della guerra”, l’aver appoggiato governanti corrotti e inefficienti dai vertici alla base (si calcola che 800 milioni di dollari di aiuti internazionali siano finiti nella loro tasche), l’aver creduto che unendo protezione della popolazione e distribuzione degli aiuti umanitari si sarebbe conquistato il cuore della gente, l’aver preannunciato con troppo anticipo il ritiro definitivo delle truppe. In ogni caso l’uscita di scena degli americani apre un vuoto che altre potenze cercheranno di riempire.

Gli attori interessati

a) In primo luogo la Cina, che da anni ha avviato contatti con i nuovi padroni di Kabul (è del luglio scorso la visita a Pechino di Mullah Ghani Baradar, il “Ministro degli Esteri” degli Studenti islamici). L’interesse cinese è legato al conseguimento  di una stabilità regionale più che a un  incremento dei rapporti bilaterali. Nel frattempo la Cina ha messo le mani sull’importante settore minerario ed estrattivo afghano (petrolio, rame, minerali preziosi, terre rare per un valore pari ad almeno mille miliardi di dollari) e ha inserito il Paese nella Via della Seta (Belt and Road Initiative) un progetto di collegamento euro-asiatico che Pechino, pur tra mille difficoltà, sembra intenzionata a perseguire. Ma la collaborazione con il nuovo regime è subordinata alla garanzia che i Talebani non offrano appoggio ai separatisti Uighuri, che tanto preoccupano i Governanti cinesi. Il politologo americano Samuel Huntington affermò nel 1993 che se la Cina avesse trovato una minima intesa con l’Islam, avrebbe spazzato via l’influenza occidentale da Kabul….

b) L’Iran. Pur essendovi una differenza confessionale (sciiti gli iraniani, sunniti gli afghani), Teheran vanta legami storici, culturali e linguistici con Kabul. Da ultimo anche i rapporti commerciali si sono intensificati, fino a toccare la somma di quasi tre miliardi di dollari, con frutta, pelli, seta, lana (ma anche oppio) in uscita da Kabul e petrolio, cemento, grano e materiale elettrico proveniente da Teheran. In questo modo gli iraniani diventano competitori commerciali con i Pakistani, rispetto ai quali hanno anche una carta in più: la similarità della struttura statale, che vede in entrambi i Paesi un vertice religioso, e un apparato amministrativo “tecnico” (agli albori in Afghanistan) costituito da ingegneri, agronomi, architetti, medici, giuristi ecc.

c) La Russia, che, superato il trauma della fallita occupazione degli anni ‘80, ha ripreso i contatti, basandosi su una comunanza di obiettivi: la lotta all’estremismo religioso (tanto che Mosca ha “messo in sicurezza” le frontiere con il Tadjikistan e l’Uzbelkistan, Paesi che ospitano importanti basi militari russe) ma anche il blocco del traffico di oppio, di cui il Cremlino ricorda la nefasta influenza che ebbe sui militari sovietici durante il decennio di occupazione. La sua politica si può definire a “a basso costo e a basso rischio”, puntando al  dialogo con tutte le parti interessate sia sul piano interno che su quello internazionale, con l’intento di creare una zona di “stabilita” regionale, ora che gli USA ne sono usciti.

d) L’India, che esce sconfitta dalla piega assunta dagli avvenimenti: non è un mistero che Delhi appoggiasse il precedente Governo e fosse ostile ai Talebani, che considerava semplici “strumenti” nella mani del Pakistan. Essa teme inoltre che gruppi estremistici pakistani quali Laskhar e – Taiba e Jaish e – Mohammad penetrino in Kashmir, con l’assistenza degli Afghani, per alimentarvi la guerriglia anti indiana. Non solo, il triangolo Cina, Pakistan, Afghanistan rischia di squilibrare il sistema di rapporti nella regione a  scapito di Delhi, portando l’India ad avvicinarsi a USA, Giappone e Australia nella cosiddetta Quad Initiative, abbandonando il suo storico neutralismo.

e) Pakistan: da sempre sostenitore dei Talebani, Islamabad vede nella uscita degli USA il conseguimento dell’obiettivo auspicato,  quello di  creare a Kabul un Governo vassallo in ossequio al principio della “profondità strategica” o, per dire meglio, di una difesa del cortile di casa ma combattendo sul terreno dell’amico vicino. È incredibile pensare che gli Americani non abbiano mai tratto le conseguenze del “doppio gioco” pakistano: da un lato, per ragioni di stabilità regionale (possesso dell’arma atomica e rischio di un suo possibile controllo da parte di gruppi terroristici)  e di impegno (dichiarato) di Islamabad alla lotta al terrorismo, Washington ha sempre accettato di aiutare, soprattutto militarmente, il Pakistan. Ma dall’altro quest’ultimo non ha mai rinunciato a proteggere, addestrare e armare i Talebani, offrendo loro un “santuario” entro i propri confini quando si trattava di sfuggire ai missili USA. Tuttavia, a differenza dei “primi” Talebani è possibile che l’influenza pakistana sia ora diminuita e che Kabul non sia disposta a farsi dettare l’agenda dei suoi impegni dal potente vicino. Solo il tempo dimostrerà’ la validità o meno di tale ipotesi.

f) Ne esce male anche l’Arabia Saudita che negli anni ‘90 era la finanziatrice dei Talebani, con cui nelle scuole islamiche (madrasse) esistenti soprattutto in Pakistan, alimentava la classe degli “ulema” (predicatori), che diffondevano nell’area il radicalismo islamico (wahabiti). Ora Ryad ha problemi interni di modernizzazione e di passaggio verso una società più aperta a esigenze civili ma anche  la necessità di riequilibrare la sua economia, oggi troppo dipendente dal petrolio. È inoltre cresciuta nel Golfo l’importanza degli Emirati Arabi Uniti, nella cui capitale, Dubai, prospera una importante colonia di afghani “ricchi” e del Qatar, che ha ospitato l’ultima parte dei colloqui tra Usa e Talebani. Quando si dice Qatar, si pensa alla Turchia, che da sempre è in prima linea nella ricostruzione di un Paese devastato dalla guerra (in Afghanistan si combatte ininterrottamente da 42 anni, una generazione e mezzo) ma che è anche sostenitrice della Fratellanza Musulmana, vale a dire quell’Islam pragmatico e non radicale che potrebbe (forse) trovare un domani ospitalità a Kabul.

E l’Europa?

L’Unione Europea ne esce a pezzi, naturalmente. La partecipazione dei vari Paesi è stata vista dalla popolazione afghana come troppo appiattita su quella americana e non sono serviti distinguo, tipo quello a noi caro, secondo cui eravamo nel Paese “non per fare la guerra, ma per costruire strade e scuole”. Anche perché tutte quelle strutture messe in piedi con enorme impiego di mezzi e tanti sacrifici umani (complessivamente si parla di 7000 caduti tra soldati e contractors della Missione internazionale) non sono state percepite come proprie dagli Afghani, ma solo come qualcosa di estraneo, fatto nell’interesse degli occupanti.

Ora a noi europei si pone un difficile dilemma: riconoscere il nuovo regime e quindi aiutarlo a consolidarsi, con tutte le riserve che abbiamo circa il rispetto dei diritti umani, la condizione delle donne ecc. o rifiutarlo e privare quindi la popolazione afghana (metà della quale, circa 17 milioni, vive ai limiti della soglia di povertà) degli aiuti umanitari per far fronte agli sfollati interni, alla pandemia, alla mancanza di lavoro, alla gravissima crisi idrica che sta colpendo la parte occidentale del Paese. Problemi che si aggiungono ai migranti che stanno arrivando a decine di migliaia in Europa, alla regolarizzazione degli oltre 300.000 già qui e all’immenso arsenale di armi e munizioni lasciate dagli americani e ora finito nelle mani dei Talebani. 

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