Bilanci di Pace è un’iniziativa giunta al suo 13esimo anno, proposta da Caritas Tarvisina e Fondazione Migrantes. L’obiettivo del percorso proposto è quello di rendere i partecipanti consapevoli dei conflitti che continuano a esistere nel mondo, attraverso le voci di chi, quei conflitti, li ha visti e vissuti in prima persona.

La serata di giovedì 20 gennaio, dal titolo “Abbandoni gelidi. Storia di un popolo calpestato e abbandonato a sé stesso”, è stata dedicata all’Afghanistan.

Alessandra Morelli, foto di L. Cappellazzo, durante l’evento online

Prima relatrice dell’incontro è stata Alessandra Morelli, già delegata UNHCR. Morelli ha lavorato per le Nazioni Unite in vari luoghi caldi del Mondo: Somalia e Ruanda, per esempio.

Si trovava in Kosovo, nel 2003, quando l’allora Alto Commissario dell’ONU, Filippo Grandi, la chiamò con sé in Afghanistan.

Morelli ricorda che quelli erano gli anni in cui in Afghanistan si era accesa una piccola speranza nella comunità civile. Tanto che 1 milione di profughi afgani scelse di rientrare in Patria dall’Iran, attirati dall’idea di poter contribuire alla rinascita del loro paese. Quell’ottimismo però duro ben poco. Si chiede Morelli:

«Dove sono finiti quell’entusiasmo e quella speranza? Erano forse basati solo sulle armi? Sono stati delegati anche quelli, alle forze internazionali? Forse il governo afgano non è riuscito a concretizzarli in piani educativi e di formazione? In un’economia strutturata?»

La relatrice descrive l’Afghanistan come una terra di tutti e di nessuno. Una terra che tutti hanno calpestato e devastato, ma nessuno è riuscito a conquistare.

Foto di David Mark, from pixabay

«L’Afghanistan è il campo del Grande Gioco dei potenti. Una terra abitata da 38 milioni di persone, di cui 24 in grave necessità di aiuti umanitari. La mancanza di cibo è oggi, in Afghanistan, una drammatica realtà. Che sta condannando 1 milione di bambini a morire di fame.

Ad agosto, quando è scoppiata la crisi umanitaria, abbiamo assistito ad una corsa della comunità internazionale, per evacuare più gente possibile. Ad una gara, quasi. Ogni paese aveva la sua personale lista di persone da salvare… Il mondo intero si era ripromesso di non dimenticare, di non lasciare solo il popolo afgano. Ora, dopo cinque mesi, cosa si sta facendo per l’Afghanistan? Un paese di cui tutti parlano, ma che tutti sentiamo lontano. Ci stiamo dimenticando che ognuno di noi fa parte della storia. Che scegliamo di non guardare o che scegliamo di agire, le nostre scelte contribuiscono a creare o meno quella pace che non è assenza di guerra, ma presenza (o assenza) concreta del vivere quotidiano

Amin Wahidi, foto di L. Cappellazzo, durante l’evento online

Continua la serata Amin Wahidi, regista afgano nato a Kabul e ora residente a Milano.

Minacciato di morte da alcuni fondamentalisti per un documentario sugli attentati suicidi, nel 2017 chiede asilo politico in Italia. Prosegue quindi a Milano la sua formazione e la sua carriera, arrivando a vincere per due volte, nel 2014 e nel 2017, il premio Città di Venezia.

Il suo intervento è stato diretto e determinato.

«Per la comunità internazionale, ciò che è successo ad agosto, è sembrata una crisi esplosa all’improvviso. Che ha lasciati tutti stupiti. Per noi afgani non è stato così. È dal 2014 che assistiamo ad una progressiva consegna del nostro paese, da parte del governo, alle forze talebane.

La grave mancanza della comunità internazionale, è stata di non capire la realtà afgana, la sua composizione e le dinamiche interne.

In Afghanistan esistono due lingue ufficiali: il Pashto e il Dari. Ci sono almeno 15 gruppi etnici, di cui 5 coprono la maggior parte della popolazione: Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek e Turkmen.

foto fi Mohammad Husaini, from pexels

I Pashtun sono il più grande gruppo etnico, quello che storicamente ha sempre detenuto il potere in Afghanistan, anche a scapito delle altre etnie.I talebani sono Pashtun. Il governo ufficiale afgano, dal 2014, era quasi interamente Pashtun. Ecco l’errore! Il codice etnico dice che tra fratelli non ci si combatte: dal 2014 il governo ha smesso di contrastare i talebani perché della stessa etnia.

La comunità internazionale non ha tenuto conto di queste regole etniche, e di fatto, ha consolidato un’etnia che già da prima era sempre stata al potere. E che ha continuato a perseguire i propri interessi a scapito dell’intera popolazione. Capiamoci, tra la gente normale, tra la popolazione civile, le differenze etniche non sono poi così importanti. Ma per chi è al potere, per i politici corrotti, c’è tutto l’interesse di rafforzare le differenze etniche per trarne vantaggio.

Faccio un esempio con ciò che sta accadendo oggi giorno con gli aiuti umanitari che arrivano in Afghanistan. Questi aiuti vengono smistati dai talebani. Ma non vengono distribuiti alla popolazione! Vengono usati per pagare l’esercito talebano o distribuiti solo nelle regioni abitate per lo più da gente Pashtun. Tutti gli altri sono tagliati fuori.

La comunità internazionale, in 20 anni, dice di aver dato all’Afghanistan 2 mila miliardi di dollari. Ebbene, dove sono finiti tutti quei soldi? Sono stati distribuiti come ora vengono distribuiti gli aiuti!

La comunità internazionale ha dato troppo riconoscimento a una sola etnia che stava al governo, di fatto rendendola più forte. Così però, si è dimenticata di tutto il resto della comunità civile, che invece aveva a cuore il bene del paese. Voleva davvero più diritti: all’educazione, di libertà di espressone, di emancipazione femminile.

La popolazione civile afgana è stata dimenticata, è stata lasciata sola a portare avanti i propri ideali di giustizia.

Amin Wahidi, regista afgano

È stata lasciata sola anche nel momento dell’evacuazione. È vero, ad agosto tanti sono stati fatti uscire dal paese. Ma è anche vero che migliaia di attivisti di etnia hazara, non sono riusciti a fuggire. Sono ancora lì, che si nascondono, per paura di essere catturati. E perché? Perché agli hazara è stato impedito di avvicinarsi all’aeroporto. Venivano riconosciuti dai check pinti talebani, e rimandati indietro.»

Eppure per Amin non tutto è perduto. Si può ancora aiutare il popolo afgano a risollevarsi.

foto di Army Amber, from pixabay

«Spesso mi viene chiesto, cosa si può fare adesso per l’Afghanistan. Si può fare molto! Prima di tutto parlarne, sempre. Non voltare le spalle, non lasciar andare le cose. In secondo luogo rafforzare questa comunità civile che ancora resiste. Basta mediare con i talebani! Basta puntare sull’ordine delle armi. Questi sono errori che sono già stati fatti. Ora è il momento di sostenere quella popolazione civile che tenta di resistere, di protestare, di portare avanti ideali di giustizia.

Poi si possono aiutare quelle associazioni, che in qualche modo tentano ancora di fornire istruzione alle donne. Magari a distanza. Aiutarle, dare loro la voce che non hanno più. Si possono anche aiutare quei gruppi e quelle ong, che stanno affianco della popolazione civile, che sono rimasti in Afghanistan. Infine, informarsi, cercare fonti attendibili su quanto sta succedendo. Senza cadere nella propaganda talebana, che purtroppo, conta molti simpatizzanti anche qui in Europa.»

Guarda anche l’intervista a Barbara Schiavulli di Radiobullets

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