La storia è il raccoglitore del tempo. Ognuno è ovviamente libero di darne la lettura che meglio crede, ma per ricostruire un determinato periodo storico, i fatti che lo compongono vanno raccontati tutti. Indistintamente. Diversamente, succede che gli omissis a volte facciano più rumore degli scripta. È un po’ quello che abbiamo provato nell’assistere a Santiago, Italia il docufilm in sala dal 6 dicembre in cui Nanni Moretti ha ricostruito i drammatici giorni del golpe cileno del 1973 e la vicenda dell’ambasciata italiana che diede rifugio a centinaia di perseguitati. A oggi rimane la più bella pagina mai scritta dalla diplomazia del nostro Paese, straordinaria testimonianza di umanità e accoglienza. Peccato che Moretti sia riuscito a strapparne una porzione cospicua offrendo una ricostruzione parziale e soffocando nel buio dell’oblio due uomini che di quella pagina furono assoluti protagonisti. Ci riferiamo a Tomaso De Vergottini, a capo dell’ambasciata a Santiago come Incaricato d’Affari e il suo braccio destro, il veronese Emilio Barbarani, giovane console a Buenos Aires inviato dal nostro ministero degli esteri a Santiago a dargli man forte. Di entrambi, nella ricostruzione di Moretti non vi è infatti traccia. Magari se qualcuno gliene chiedesse il motivo, anziché unirsi in genuflessione al coro conformista delle lodi, renderebbe un servizio alla storia. Ci parrebbe quantomai utile e apprezzabile. Moretti si è definito «di parte». E ci sta. L’idea che se ne ricava vedendo il suo docufilm è che abbia voluto rimanere fedele a tale linea rendendo un servizio altrettanto «di parte». E questo ci sta meno.
Per spiegarci, ricostruiamo i fatti. In seguito al golpe dell’11 settembre del 1973, la giunta militare del generale Pinochet scatena la sua cruenta repressione. Per sfuggire agli aguzzini della DINA, la polizia segreta diretta dal sanguinario Manuel Contreras, centinaia di disperati trovano rifugio nelle ambasciate. Assente l’ambasciatore italiano, la nostra sede diplomatica è in quei giorni retta dal primo segretario Piero De Masi, il quale non rimane insensibile alla massa di disperati che vi si accalcano e apre i cancelli accogliendoli. La situazione diviene però con i giorni insostenibile e finisce con l’implodere: De Masi, divenuta persona non gradita alle autorità del regime, si sente in pericolo e chiede di lasciare il paese: il 30 dicembre del 1973 arriva, allora, a Santiago un diplomatico reduce dal servizio in Israele, un istriano originario di Parenzo, un uomo che la cieca violenza della repressione l’ha provata sulla propria pelle quando i Titini gli infoibarono il padre. Non è accreditato; ha con sé solo il passaporto diplomatico e il suo status è quello di “diplomatico in transito“. Dovrebbe rimanere a Santiago giusto il tempo per riorganizzare e normalizzare le cose: vi rimarrà dieci anni dopo aver a fatica ottenuto il titolo d’Incaricato d’Affari. Curioso che l’Italia di facciata non riconosca il regime di Pinochet ma vi faccia affari nel retrobottega. Al suo fianco, De Vergottini ha la moglie Annasofia che lo sostiene con coraggio operandosi quotidianamente al servizio degli ospiti dell’ambasciata trasformata in un centro di accoglienza. La coppia sarà oggetto di un attentato, dal quale si salveranno per miracolo, quando di ritorno da una breve viaggio sulle Ande cilene alla loro Volvo saranno manomessi i freni. De Vergottini ottiene attraverso estenuanti trattative con il ministero degli interni cileno i salvacondotti grazie ai quali i richiedenti asilo possono lasciare il paese rifacendosi una vita altrove.
Le cose precipitano il 3 novembre del 1974, quando nel giardino della sede diplomatica viene trovato il corpo di una ragazza. Si chiama Lumi Videla ed è una militante del MIR, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria, il cui leader Humberto Sotomayor ha trovato rifugio proprio nell’ambasciata italiana. Il corpo lo rinviene il segretario Roberto Toscano che come De Masi sarà costretto a lasciare il Cile. La stampa di regime si scatena e addebita la causa del decesso a un’orgia a base di sesso e droghe. La nostra ambasciata è ritratta come un luogo di peccaminosa perdizione, «covo di estremisti protetti dall’Italia» scrivono i giornali. De Vergottini è sempre più solo, in suo soccorso giunge quindi da Buenos Aires il console Enrico Calamai, ma la sua permanenza a Santiago dura poco. Tocca quindi a Enrico Barbarani, anch’egli d’istanza diplomatica nella capitale argentina. De Vergottini e Barbarani, ottengono il benestare della Farnesina, ma operano sotto traccia. Il rischio è quindi tutto loro. Pur tra mille difficoltà e pericoli riusciranno con tenacia a condurre l’operazione umanitaria a termine. L’8 aprile del 1975 Barbarani accompagna all’aeroporto di Santiago gli ultimi ventisei rifugiati muniti di salvacondotto. Dal giorno del golpe, gli «Schindler italiani» ne hanno salvati 750. De Vergottini rimarrà nella capitale cilena fino al 1983. È scomparso nel 2008 dopo essersi stabilito a Montevideo con la sua Annasofia. Nel 1990 ha ricevuto la Gran Croce dell’Ordine di Bernardo O’Higgins, la più alta onorificenza cilena; è stato anche nominato Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.
Nel 2014 Annasofia De Vergottini ha ritirato il Premio Allende conferito alla sua memoria. Lo stesso premio lo aveva ricevuto Emilio Barbarani due anni prima. Nel 1991 Tomaso De Vergottini ha ricostruito passo per passo le fasi di quella vicenda nel libro Cile: diario di un diplomatico. Vale la pena ricordare inoltre che contribuì non poco a sbrogliare la matassa legata alla partecipazione dei nostri tennisti alla finale della Coppa Davis del 1976 a Santiago. Sarebbe ora che gli si riconoscesse quanto fece anziché ricorrere a fantasiose storielle legate a lettere fantasma scritte (e mai rinvenute) a Enrico Berlinguer dall’allora leader del partito comunista cileno clandestino Luìs Corvalàn. Emilio Barbarani ha raccolto le sue memorie in Chi ha ucciso Lumi Videla, libro di grande successo che presto verrà proposto sul grande schermo. Il 3 marzo del 2016, l’ambasciatore cileno in Italia Fernando Ayala con una cerimonia ufficiale a Roma ha premiato De Masi, Toscano, Barbarani e De Vergottini. Per quest’ultimo era presente la moglie Annasofia, donna di straordinario temperamento e coraggio. Moretti nel suo docufilm si sofferma solo su Piero De Masi e Roberto Toscano. Per lui Barbarani e De Vergottini è come se non fossero mai esistiti. Sebbene l’abbia intervistata nella sua casa di Roma, nemmeno di Annasofia De Vergottini fa menzione. Cattolici, centristi, persone libere da ideologie ma animate da matrici senza bandiere se non quella umanitaria: l’unica colpa? Non essere abbastanza di sinistra e quindi meritevoli di attenzioni. Ci auguriamo non sia così (sarebbe oggettivamente grave) ma, come diceva qualcuno, a pensar male a volte ci si azzecca. La storia è tuttavia un giardino fiorito di ben altra eleganza rispetto agli orticelli: è nobildonna almeno quanto nobiluomo è il tempo. Basterebbe solo studiarla e raccontarla con rispetto nella sua interezza scevra dei pregiudizi. Qualcuno per fortuna lo ha fatto e altri ne verranno. Non vogliamo nemmeno pensare che un fine ritrattista dei nostri giorni come Nanni Moretti non ne sia stato capace. Più semplicemente siamo propensi a credere che non abbia voluto (ed è proprio per questo che spiace ancora di più). Interessante sarebbe almeno sapere perché…