La pace viene spesso descritta come un processo negoziale, un tavolo in cui due parti si scambiano concessioni finché trovano un equilibrio accettabile. In teoria funziona così, proprio come una compravendita: uno dà qualcosa, l’altro restituisce. Ma questa logica presuppone un elemento essenziale, il più semplice e il più assente nella guerra in Ucraina: la volontà comune di arrivare a un accordo. Perché ogni trattato, per quanto elaborato, si fonda su una domanda elementare: che cosa sono disposte a cedere le parti? E in questo caso, su cosa è disposto a cedere l’aggressore?

Nel caso della Russia, la risposta è brutalmente chiara: nulla. Non c’è contropartita credibile che Mosca sia pronta ad accettare se non la resa di Kyiv. L’obiettivo dell’invasione non è stato un aggiustamento di confini né una compensazione economica; è stata la negazione dell’esistenza politica di un Paese. Finché questo rimane il presupposto, ogni proposta di pace è destinata a fallire perché manca l’ingranaggio fondamentale: un interesse condiviso.

L’Europa, però, non è rimasta ferma. Ha inviato armi, ha imposto sanzioni, ha interrotto rapporti commerciali profondissimi. Ha fatto più di quanto molti immaginassero fosse possibile, pagando un prezzo politico ed energetico elevato. Ma questi interventi non hanno piegato Mosca, anche perché dove l’Occidente ha chiuso spiragli, altri attori globali — in primis la Cina — hanno esteso un ombrello politico ed economico che ha ridotto la pressione internazionale.

Il rischio oggi riguarda però anche un altro fronte: la capacità dell’Unione di mantenere una linea autonoma proprio mentre gli Stati Uniti oscillano verso una postura imprevedibile. Affidarsi alla volontà di un presidente americano che ha già dimostrato di vedere la pace come un accordo da chiudere a ogni costo, anche lasciando irrisolte le tensioni che l’hanno resa necessaria (vedi alla voce Israele/Palestina, ndr), significa rinunciare a costruire una strategia europea reale. Delegare è sempre più facile che assumersi responsabilità, ma delegare ora sarebbe un errore storico.

La pace non è un contratto firmato per archiviare un conflitto: è un equilibrio che nasce dal riconoscimento dei diritti e dalla disponibilità reciproca a costruire un futuro condiviso. Non può esistere quando una delle parti rifiuta l’idea stessa di compromesso. E non può esistere se l’Europa, dopo aver fatto molto, si ritira proprio mentre dovrebbe compiere il salto di qualità per diventare finalmente quell’attore capace di indirizzare le scelte globali. Ne avrebbe tranquillamente la forza economica, militare e politica.

Senza questa maturazione, i piani di pace per l’Ucraina continueranno a restare documenti impeccabili sulla carta, ma privi di qualsiasi possibilità di incidere sulla realtà.

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