«Andiamo in vacanza». Nulla di che, è normale d’estate. Aggiungo: «Andiamo in vacanza in Ucraina» e la gente mi guarda strano. Per l’uomo comune è qualcosa di inconcepibile. La guerra, quella dei film equivale esplosioni, spari, ferite, insomma. Un vortice di furia distruttrice, e i civili ridotti in miseria come contorno.

Eh no. Quella è la guerra semplificata, ridotta alle immagini visive in bianco e nero, ma la pellicola della realtà è sempre a colori. Accanto ad una trincea crescono gli alberi colmi di albicocche, che i soldati raccolgono volentieri. In una casa distrutta dai missili russi una gatta partorisce dei bellissimi gattini. La natura va avanti indifferente alla sofferenza degli umani che vivono la loro vita adattandosi alle circostanze. Mentre a Chernyhiv inizia un corso di recitazione in inglese, nel Donbass continua ininterrotto il fuoco nemico.

Rinunciare alla quotidianità, cancellare i rituali della stagione significherebbe darla per vinta. Per questo a Kharkiv i maturandi fanno il loro ballo di fine anno nel cortile della scuola, perché si fa sempre questo a giugno, anche se la scuola è stata bombardata, e le fioriere sono in perfetto ordine. I giardinieri municipali sono richiesti tanto quanto i soccorritori che scavano nelle macerie.

A Odessa si va in spiaggia come sempre, ma gli odessiti restano sulla riva: nel mare galleggiano le isolette di terra che hanno navigato fin lì dal Dnipro e le carogne di animali annegati. Ci sarà anche il Festival del cinema di Odessa, con le proiezioni dei film vicino al mare, ma il concorso internazionale si terrà a Chernovtsi, così gli ospiti potranno atterrare all’aeroporto di Chişinău.

La solita vacanza? C’è un però

Dunque, noi abbiamo deciso che se dobbiamo andare in vacanza, andiamo in Ucraina. Se dobbiamo spendere i soldi, è lì che lo faremo. Quindi come l’anno scorso, a metà giugno partiamo per Lviv. Dopo l’indispensabile passaggio in Polonia e la coda lunga due ore per imbarcarsi sul treno, dove viaggiano in prevalenza mamme coi bambini ed anziani, arriviamo a Lviv.

Una ricamatrice vende alcuni suoi manufatti in una mercatino di Lviv. Foto di Marina Sorina.

C’è tutto l’indispensabile per una vacanza perfetta: passeggiate alla scoperta dei quartieri antichi o delle periferie piene di grattaceli in costruzione, ristoranti e caffè fantasiosi e raffinati a prezzi stracciati, librerie e negozi di souvenir irresistibili, musei storici e d’arte, un parco etnografico a cielo aperto e una chiesa ombrosa con le statue avvolte dai teli protettivi.

Per strada, i bambini sguazzano nelle fontane, gli innamorati passeggiano coi fiori in mano, i giovani alternativi cantano a squarciagola ai concerti rock al cielo aperto, i pittori disegnano en plein air.

Irresistibili i mercatini di pulci ricchi di tesori e mercatini di artigianato con le ricamatrici che ti salutano in italiano. Importantissimi gli incontri con gli amici: quasi tutti oriundi dell’Ovest, da Kharkiv e Donetsk, alla ricerca di rifugio sicuro.

L’esistenza vulnerabile

Non ho scritto nulla in quei giorni: volevo solo assorbire la realtà. Mio marito pubblicava qualche foto su Facebook, una delle quali è stata commentata così: “Vedendo i vostri sorrisi viene da pensare che la situazione sia tranquilla. Allora, non è così grave come ci raccontano in tivù!” Chi scriveva mosso dai migliori sentimenti e dalla voglia di veder risolto al più presto “il problema”, non si rendeva conto che una cosa non esclude l’altra, e proprio in questo sta l’atrocità della vita dentro la guerra.

Sei vivo, qui ed ora, ma in ogni istante puoi essere cancellato. Lo stesso riguarda il mondo attorno a te: i tuoi amici, la tua casa, i fiori nel tuo giardino, le icone nella tua chiesa. Una spada di Damocle pende sopra ogni testa. Non ci sono zone sicure, e il recente attacco a Lviv del 6 luglio, con ben tre missili conficcati di notte in un palazzo residenziale ne è la prova.

Il cielo ucraino è scoperto, l’antiaerea è concentrata sugli obiettivi strategici; dall’altra parte, il nemico è armato di nugoli di droni, di cacciabombardieri e di missili che dal Mar Nero arrivano fino quasi al confine polacco. Per l’esercito russo non esiste né un luogo troppo sacro (come Uman, città di Nahman di Breslav), né uno troppo profano (come “Pizza Ria” di Kramatorsk), non importa loro dell’ecologia (la diga di Kakhovka), dell’istruzione (Università di Kharkiv), della fede (il monastero di Svatohirsk).

Delle icone provenienti dai territori del Donbass conservate a Leopoli-Lviv.

Distruggono i reparti maternità e i cimiteri con la stessa disumana ferocia, e poi se ne vantano in televisione: “Tutti gli obiettivi strategici sono colpiti”. Sanno benissimo che hanno distrutto un palazzo residenziale, non c’è nessuno sbaglio, sono ben informati. Il loro obiettivo è il genocidio dei cittadini ucraini, e stanno implementando il loro piano con una lucida puntualità.

L’escalation è evidente: il numero di civili uccisi negli ultimi 500 giorni è il triplo di tutte le vittime degli otto anni precedenti, e la conta dei morti non diminuisce, anzi: dopo i primi mesi relativamente tranquilli, dopo aver aumentato la produzione interna degli armamenti, i russi sono tornati a colpire.

Fra maggio e giugno il numero di morti civili è salito al picco, tra le vittime di allagamento a Kakhovka e quelle uccise in pizzeria a Kramatorsk o nel proprio letto a Lviv.

L’aria di guerra

A prescindere dall’attacco, la vita a Lviv va avanti come sempre. In stazione, i soldati in partenza e in arrivo abbracciano i parenti. In centro, le fioraie vendono mazzi di fiori di campo, i fotografi di strada agganciano i malcapitati per una Polaroid. Le locandine sui muri annunciano concerti, presentazioni di libri e sconti nei negozi. I supermercati sono colmi di ogni ben di dio: uno scaffale intero di diversi tipi di hummus, pesci vivi nell’acquario, fiori di ibisco canditi, formaggi dai monti Carpazi e altre prelibatezze. Accanto a quelle, un container con torce e lanterne, per i blackout. Alle nove il reparto alcolici viene chiuso.

La guerra è come l’aria: invisibile e onnipresente. La noti nello sguardo fisso nel vuoto di chi non ha dormito la notte per colpa dell’ennesimo attacco, o negli occhi ciechi dei reduci dai volti bruciati. La noti quando cerchi di mettere a fuoco un buco nel fianco di un palazzo: sembra incompleto, manca un pezzo, non hanno finito di costruire? – e poi il tassista ti spiega che no, quei due piani sono crollati per colpa di un drone iraniano della notte precedente.

La trovi dove meno te la aspetti. In chiesa, dove sono esposte le icone salvate nelle case distrutte del Donbass: scurite dal tempo, trovate fra le macerie e trasportate fino a Lviv. Alla casa-museo di Solomia Krushelnytska, dove le custodi sospirano: «Il nostro direttore è giovane, se lo arruolano sarà un disastro».

Un trittico di Katerina Kosianenko, in mostra a Leopoli al Museo d’arte Sheptyskyi. Foto di Idriss Capitano.

Al Museo d’arte Sheptytskyi c’è la mostra di Kateryna Kosianenko, pittrice contemporanea che mischia il canone iconico con la vita quotidiana. La mostra si chiama semplicemente “Victory” ed è un inno alla vita che racconta nei suoi quadri profetici dai colori saturi il ricordo della pace perduta, della vita gioiosa che ci è stata tolta ma che riprenderemo, combattendo.

A Drohobych facciamo una classica gita di un giorno, fra le chiesette lignee con affreschi stupendi, l’antica fabbrica di sale e la sinagoga restaurata da poco. Una cittadina ordinata e serena: ha già pagato il suo prezzo di sangue con le vite di ucraini, ebrei e polacchi, uccisi nella Seconda guerra mondiale.

Kyiv, il giorno dell’attacco

A Kyiv c’è l’Arsenale del libro: decidiamo di andarci all’ultimo momento. La partenza da Lviv è accompagnata dalla sirena: anche se gli aerei russi sono lontani, se si alzano in aria nessuno può prevedere dove colpiranno. La sirena non impressiona più nessuno, tranne i nuovi arrivati come noi.

Arriviamo a Kyiv quando c’è ancora lo stesso allarme in corso. I viaggiatori si accomodano sulle panchine del passaggio sotterraneo, tutti fermi, silenziosi, molti dormono seduti. Appena finisce l’allarme, tutti si alzano e cominciano a circolare, come se nulla fosse. Restano a dormire sulla panchina solo i militari e i senzatetto.

Sul Khreshchatyk all’alba ci sono già i primi turisti. In piazza dell’Indipendenza, una ragazza con un vistoso e svolazzante abito giallo-azzurro si fa riprendere da un fotografo, camminando scalza sulle pietre che nel 2014 furono testimoni dei primi spargimenti di sangue di questa lunga battaglia per la libertà.

Sul prato di Maidan un mare di bandierine con le scritte: per il 90% sono bandiere ucraine, ma c’è anche quella georgiana, polacca, americana. Ogni bandierina è una vita stroncata. Qualche giorno dopo, accanto alle stesse bandierine, si è fatta fotografare anche Joan Baez, a Kyiv in missione umanitaria.

La cantante Joan Baez, a sinistra, in missione umanitaria in questi giorni a Lviv, foto da Ukraine Children’s Action Project.

Alla ricerca della normalità perduta

L’Arsenale del Libro è affollato di giovani alternativi, gente del mondo dell’editoria, lettori di ogni età. Poca differenza con il Salone del Libro di Torino, se non fosse per il segnale all’ingresso che indica dov’è il rifugio antiaereo, e una sala intera è dedicata ai libri sulla guerra.

Dopo la fiera del libro, visitiamo Lavra, un complesso di chiese che dovrebbero appartenere allo Stato, ma sono state fino a poco fa dominate dal Patriarcato di Mosca. Le custodi insistono ancora a parlare il russo, le guide invece sono passate all’ucraino.

Poi andiamo a trovare i parenti. Abitano nel quartiere che proprio quella notte è stato colpito. Ce lo spiega come sempre il tassista che ci porta lì. Ci apre subito il suo cuore: come scusandosi, racconta che non si è arruolato perché doveva badare al cagnolino della mamma. Penso già: “Ecco, le solite scuse”, ma lui continua: «Siamo di Irpin, la mamma è morta nei primi giorni dell’occupazione, per la paura e la mancanza del soccorso medico. Poi la casa è stata bombardata. La cagnolina è l’unica sua eredità che mi è rimasta. Ora è molto traumatizzata e se la lascio ad altre persone non resisterà a lungo. Se non fosse per lei, sarei già sul fronte, e forse sarei già morto».

I parenti sono un po’ assonnati, ma hanno imbandito una tavola impeccabile, some sempre. La figlioletta ha tre anni, ma non va all’asilo: è chiuso perché stanno ampliando lo scantinato. La guerra sarà lunga, i bambini devono avere uno spazio adeguato e sicuro. Per i primi 14 mesi si nascondevano nella cantina soffocante e mal illuminata, in cui le maestre hanno dipinto dei fiori sui muri per renderlo più allegro. Ora staranno meglio in un rifugio più grande e accogliente.

Gente di pace sul fronte di guerra

Venditori di fiori per le strade di Leopoli. Foto Marina Sorina.

Di guerra è intrisa la vita pacifica di ogni giorno. Ma anche la gente pacifica è immersa nella guerra. L’esercito ucraino è formato da professionisti e veterani solo in parte: il resto sono i civili, lontanissimi dal mestiere militare. Ingegneri, medici, scrittori, cantanti, politici, pittori, ricercatori, giornalisti, programmatori, professori: si sono tutti arruolati perché volevano che la guerra cessasse al più presto. Sapevano che solo facendo uno sforzo comune si sarebbe potuto vincere.

Il loro credo a febbraio del 2022 era: “Andiamo avanti, teniamo botta, e poi vedrai che arriveranno i rinforzi, avremo le armi pari a quelli dell’avversario, il cielo verrà chiuso, il mondo intero ci sosterrà con azione e solidarietà.

Non è possibile che si guardi altrove o faccia finta di niente mentre si compie questa enorme ingiustizia. Il mondo democratico rifiuta la violazione della legalità, la vita umana è sacra e chi la distrugge sarà senz’altro condannato da tutti. Presto toglieranno il saluto a chi compie gli abusi e le violenze inaudite, dobbiamo solo resistere ed informare!”

Le illusioni di una fratellanza impossibile

Ahimè, non è andata così. L’Europa ideale sognata dagli ucraini si è comportata in modo elusivo, soprattutto per quel che riguarda la società civile. Le organizzazioni preposte alla vigilanza sui diritti umani e l’ambiente rimangono in disparte, i cattolici inneggiano alla “pace giusta” ma intendono “resa incondizionata”. Il teatrino di ipocrisia si trascina frenando gli aiuti e lasciando le invisibili scie sanguinose.

D’altronde, dieci anni fa nemmeno gli ucraini erano pronti per la guerra. Zelenskyi, non ancora presidente, aveva passato l’ultima notte del 2013 a condurre il concerto di Capodanno a Mosca. Pochi mesi dopo, sarebbe cominciata la Grande guerra russo-ucraina che ha colpito circa il 10% del territorio. Nelle altre zone si poteva ancora far finta di niente. Le poche voci che insistevano fosse solo un preludio venivano zittite dalla voglia di normalità di crescita, di prosperità.

Mentre la Russia si armava, l’Ucraina pensava a costruire: condomini di prestigio, autostrade comode, digitalizzazione delle pratiche amministrative, turismo interno, cancellazione del regime di visti, agricoltura biologica. Gli “uccelli del malaugurio” ammonivano dicendo “bisogna armarsi, sviluppare e produrre gli armamenti in casa, costruire le barriere, diffidare”. A vincere le elezioni fu invece chi affermava: “Ci incontriamo a metà strada, ci guarderemo negli occhi e loro ci restituiranno i nostri territori in modo amichevole”.

Il doloroso risveglio

Cinquecento giorni fa è arrivato per tutti il momento che ha messo in chiaro la realtà: il Paese considerato finora un vicino importante e un partner strategico era in realtà un acerrimo nemico storico, un predatore in attesa di un momento giusto per colpire tutti, a prescindere dalla loro residenza, lingua madre, religione o orientamento politico.

Gli ucraini lo hanno imparato in fretta, sulla propria pelle bruciata. Per il resto del mondo il risveglio è stato un po’ più lento.

I primi a reagire in Europa sono stati i paesi limitrofi, che hanno sofferto in passato la violenza dalla stessa fonte. L’unica eccezione: l’Ungheria, che pare aver dimenticato i carri armati sovietici sulle strade di Budapest e fa il gioco di Mosca, frenando gli aiuti che, pur essendo continui e consistenti, sono sempre elargiti con un occhio ai bisogni ucraini e uno a quelli dei russi. Si aiuta centellinando gli armamenti per non offendere i russi, per salvare la loro faccia, evitare che vengano toccati i loro interessi.

L’arte si fa anche per strada. Un suonatore di flauto in un cortile interno a Lviv. Foto di Idriss Capitano.

In sostanza, è più facile esprimere “profonda preoccupazione” alquanto superficiale che aprire gli occhi. L’Italia, in contrasto con la posizione fermamente pro-ucraina del governo, continua a fare affari con i russi, senza preoccuparsi se poi queste forniture sono usate allo scopo militare. I turisti russi scorrazzano indisturbati nei resort di tutto il mondo, e dulcis in fundo, i cantanti russi, schierati con il regime, inaugurano le prime dei teatri italiani importanti, l’Arena di Verona inclusa.

La vita in Ucraina va avanti nonostante il pericolo costante che incombe su ogni singolo cittadino del Paese. La netta percezione della fragilità della vita rende ancora più alto il valore di ogni giorno vissuto. Ci si innamora, ci si sposa, nascono i figli, la domenica si va a mangiare la pizza. Mettendo in conto il rischio di essere uccisi e sperando di riconquistare al più presto la pace.

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