Lo scenario della “guerra lunga” è ormai accettato come inevitabile dentro il potere russo. Le recenti mosse e dichiarazioni di Donald Trump, che si appresta a lanciare un ultimatum a Vladimir Putin, hanno riacceso il dibattito sulle sorti del conflitto in Ucraina e sulle opportunità mancate da Mosca.

La Casa Bianca ha precisato i contorni della proposta di Trump: dazi del 100% su tutte le esportazioni russe e sanzioni secondarie contro i Paesi che continuano a comprare petrolio o materie prime da Mosca; entro 50 giorni dovrà essere siglato un cessate il fuoco credibile, altrimenti scatterà la stretta. «Parlo molto con Putin… e la notte stessa piovono missili su Kiev. Dopo tre o quattro volte capisci che i discorsi non servono a niente», ha sbottato l’ex magnate.

Non è più un cambio di stile, è un cambio di linea: armare Kyiv con missili a lungo raggio finanziati al 100% dall’Europa e minacciare ritorsioni commerciali a Mosca. «Trump è davvero incazzato con Putin; l’annuncio sarà molto aggressivo», ha confermato il senatore Lindsey Graham.

Le reazioni da Mosca: borse in rialzo, scetticismo e cautela diplomatica

Le prime reazioni a Mosca all’annuncio di Trump sono state immediate e composite. Il mercato azionario russo, dopo le dichiarazioni del magnate, ha registrato una rapida accelerazione, aumentando di oltre il 2,5 percento. Tuttavia, il vice presidente del Consiglio della Federazione, Konstantin Kosachev, ha espresso un certo scetticismo, commentando che le dichiarazioni di Trump sull’Ucraina non cambieranno l’umore della Federazione Russa. «Se questo è tutto ciò che Trump intendeva dichiarare oggi sull’Ucraina, allora per ora è tutto fumo e niente arrosto», ha sottolineato Kosachev, interpretando le parole di Trump come un segnale che «gli europei dovranno sborsare e sborsare».

In un contesto di maggiore cautela diplomatica, poco prima dell’intervento di Donald Trump, Kirill Dmitriev, capo del Fondo Russo per gli Investimenti Diretti (RDIF) e rappresentante speciale del presidente russo, ha esortato alla continuazione del dialogo. Ha affermato che la pressione di Washington su Mosca sarebbe “destinata a fallire“, pur riconoscendo la disponibilità degli Stati Uniti a considerare gli interessi russi. Dmitriev ha sottolineato che un dialogo equo, rispetto reciproco, realismo e cooperazione economica sono i fondamenti della sicurezza globale e di una pace sostenibile.

Anche il Cremlino ha apprezzato gli sforzi dell’inviato speciale degli Stati Uniti, Keith Kellogg, arrivato a Kiev. Secondo il portavoce Dmitrij Peskov, per Mosca è importante che il suo lavoro sulla risoluzione del conflitto continui. Peskov ha ribadito la disponibilità della Russia a un nuovo ciclo di negoziati con l’Ucraina, dichiarando: «Aspettiamo ancora proposte sui tempi. La parte russa è pronta a continuare e a condurre il terzo round».

Queste dichiarazioni, seppur successive alle critiche di Trump, mostrano la volontà del Cremlino di non rompere del tutto il rapporto con la futura amministrazione americana, mantenendo aperta la porta al dialogo.

L’Occidente (ri)scopre l’unità

Mark Rutte, segretario generale della NATO, ha colto la portata politica della svolta: «Se fossi Putin, alla luce di ciò che avete pianificato per i prossimi 50 giorni, ripenserei seriamente la mia posizione». Berlino, Helsinki e Stoccolma si sono già unite al piano “Europe pays, America builds”, mentre il Bundestag valuta di alzare la spesa difensiva al 5% del PIL. In parallelo, Bruxelles prepara un nuovo tetto al prezzo del greggio russo e l’esclusione definitiva di Gazprombank dallo Swift.

Trenin e la “pagina voltata”

Dmitrij Trenin

Per comprendere l’umore a Mosca, è fondamentale leggere l’analisi di Dmitrij Trenin, pubblicata sul quotidiano russo “Kommersant” il 9 luglio 2025. Trenin afferma che “sin dall’inizio era evidente che con Trump non ci saremmo accordati sull’Ucraina alle condizioni utili alla sicurezza della Russia… La pagina è voltata”. Egli avverte che “la guerra non finirà nel 2025, né con la fine dei combattimenti in Ucraina… Per noi in gioco c’è l’esistenza stessa della Russia”.

Trenin riconosce che i frutti del dialogo ripreso con Washington, sebbene reali, “sono tecnici e tattici” e non cambiano il quadro strategico. Questa prospettiva rafforza l’idea che, nel cuore del potere russo, lo scenario della “guerra lunga” sia ormai accettato come inevitabile.

È la pietra tombale sul mito del “Patto 2025” di cui avevamo già scritto su Heraldo.

L’occasione sprecata di Putin: una pace più che vantaggiosa

In una fase in cui l’amministrazione Trump sembrava disposta a considerare un congelamento del conflitto e a ragionare su una sospensione delle sanzioni, Putin avrebbe potuto cogliere un’opportunità irripetibile per uscire dalla guerra a condizioni estremamente vantaggiose. Una simile mossa gli avrebbe permesso di salvare la faccia a livello internazionale, alleviando la pressione sulle responsabilità per i crimini di guerra e consolidando i territori già acquisiti.

Vladimir Putin

Si vociferava che Trump fosse persino incline a riconoscere l’annessione della Crimea, e la Russia avrebbe potuto ottenere una parziale liberazione dalle sanzioni statunitensi, uscendo progressivamente dall’isolamento internazionale. In sintesi, Trump offriva a Putin numerosi benefici, a patto di cessare i bombardamenti in Ucraina e fermare la guerra.

Ma Vladimir Putin ha preferito rilanciare, annunciando nuove offensive e — secondo quanto riferito da interlocutori vicini a Washington — avrebbe dichiarato nella telefonata del 3 luglio l’intenzione di “prendersi tutto il Donbass entro sessanta giorni”.

Così ha bruciato — forse definitivamente — la sua occasione più favorevole per chiudere il conflitto a condizioni estremamente vantaggiose. La sua è stata una decisione solitaria, che ha ignorato le possibili spinte interne all’entourage desideroso di un ritorno alla normalità, e che si allinea perfettamente con quanto espresso da Trenin: il Cremlino ha ormai accettato l’idea di una guerra lunga.

Il prezzo pagato dall’Ucraina

Nel frattempo, Kyiv continua a sopportare il peso maggiore del conflitto. Il Paese ha subito devastazioni significative, con intere città del Donbass ridotte a crateri e l’economia che ha perso una parte considerevole del suo PIL negli ultimi tre anni. Funzionari americani ed europei sperano che il nuovo pacchetto di armi possa “cambiare la traiettoria della guerra e modificare i calcoli di Putin”.

Tuttavia, ogni giorno di ritardo nella risoluzione del conflitto si traduce in nuovi attacchi missilistici e ulteriori sofferenze per la popolazione ucraina. La Russia resta l’aggressore: è Mosca ad aver infranto con la forza la sovranità ucraina e ad aver innescato questa spirale di sofferenza.

Volodymyr Zelenskyj

Il conto interno: un futuro cancellato

Nel frattempo, i ministeri di Mosca parlano di “economia di guerra” mentre le piccole città dell’entroterra si svuotano. Investimenti esteri sono evaporati e la crescita per il 2025 è proiettata sotto l’1%. Tra i giovani russi la fuga all’estero è in crescita, segno di una generazione che non vede più prospettive dentro i confini nazionali. Putin, inseguendo un sogno imperiale, ha messo all’asta il domani dei suoi cittadini.

E ora? Il Cremlino si finge indifferente — “continueremo il dialogo”, dice Dmitrij Peskov — ma il Sanctioning Russia Act, sebbene inizialmente ventilato con un’aliquota del 500% e ora “minacciato” da Trump al 100%, resta sul tavolo.

Patriot e ATACMS europei si avvicinano alla linea del fronte mentre Kyiv ottiene un canale diretto di finanziamento militare. In un passaggio quasi rassegnato, Trenin avverte che «gli Stati Uniti — con Trump o senza — resteranno nostri avversari»: sinonimo di “guerra lunga” accettata nel cuore del potere russo.

La svolta di Washington ha ricomposto l’unità occidentale, trasformando una trattativa in una prova di forza economica e militare. Ma la svolta mancata di Mosca pesa ancora di più: Putin non solo ha perso l’occasione di uscire dalla guerra a condizioni favorevoli, ma ha anche ipotecato il futuro della Russia e aggravato quello dell’Ucraina. La finestra di opportunità si è ridotta a una feritoia; dietro non c’è il sole di un nuovo impero, ma il baratro di un conflitto che nessuno — nemmeno il Cremlino — sembra più in grado di controllare.

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