Di Silvio Berlusconi non è la biografia ufficiale che parla. Imprenditore, politico, discusso e discutibile: in fondo altri ve ne sono stati e ve ne sono. La sua unicità ha consistito nel calare tutto quel percorso di vita pubblica e privata in costante squilibrio tra consapevolezza dei ruoli e spregiudicatezza delle azioni, tra enormità del potere e popolarità nel modo di esercitarlo.

Per comunicare, Berlusconi ha avuto l’intuizione (ma forse semplicemente l’istinto incontrollabile) di confondere gli strumenti con i fini e mescolarli. A cominciare dal suo sogno ideale di società, dove consumi e qualità della vita sarebbero stati una cosa sola, in una specie di capitalismo sociale, non da costruire, ma più semplicemente da acquistare.

Il cerchio da chiudere era formato da modelli di abitare con agiata serenità, supermercati da vivere con gioia consumistica, comunicazione e informazione di cui fruire con partecipazione. E poi lo sport, per goderne l’intrattenimento e lo spirito salutare. Tutto in una specie di welfare dell’agiatezza.

Con la stessa logica, in una specie di missione di bellezza universale, aveva fatto quel che nessuna persona prudente avrebbe mai fatto, ovvero accettare di diventare riciclatore della prima repubblica.

I partiti, i poteri, le zone grigie, erano per lui come i materiali di scavo delle fondamenta delle palazzine a Milano2: residui scomodi per altri, materia da portare a nuova vita. Nella sua cittadina modello la trasformazione era in gradevoli collinette condominiali, nella politica sarebbero dovuto essere nuove dinamiche, spavalde, spregiudicate.

In parte così è stato.

Senza convenzioni

Chiave di tutto sarebbe stata sempre la sua capacità di essere tutto e il contrario di tutto, non senza convenzioni, ma con convenzioni da reinventare continuamente.

Una volta, quando non solo era già editore televisivo affermato, ma si stava apprestando a scendere in politica, durante il telegiornale della notte su una sua rete, approfittando della messa in onda di un servizio, telefonò in studio, raccomandando al conduttore di cambiare la montatura degli occhiali.

Un’altra volta, già da Presidente del Consiglio, vedendo oltre le transenne, in mezzo agli altri giornalisti, l’inviato di un suo telegiornale, gli si avvicinò dicendogli che era opportuno che fosse sempre lui a seguirlo, quindi il giorno dopo avrebbe chiamato il suo direttore per raccomandargli di concedere al cronista adeguati giorni di riposo. Il tutto davanti ai colleghi.

Così sempre. Lo squilibrio voluto, apertamente coltivato come metodo di cambiamento.

La villa in Sardegna, trasformata in un gioioso luogo di vertici mondiali. Le gaffes clamorose, vissute come spavalderie. Finanche le inchieste giudiziarie trasformate in set di comunicazione televisiva.

I processi, le vittorie, le sconfitte, il potere, le barzellette. Il moralismo conservatore e la scostumatezza senza freni. L’onestà celebrata e le contiguità oltre la legge. Tutto convivente in un confusione impossibile da replicare.

Un uomo, uno slogan

Ci sono centinaia di cose da ricordare e dire di Silvio Berlusconi, ad uso e consumo tanto di ammiratori, quanto di odiatori. Cose enormi, clamorose. Ma due, tutto sommato piccole, marginali, se ricordate parlano perfettamente di lui: lo slogan elettorale “Un Presidente operaio” e il servizio sociale imposto, svolto in una casa di riposo.

Il primo, considerato da alcuni un insulto storico, coincise con la prima fuga di voti operai verso destra. Il secondo, approvato dagli stessi come una giusta umiliazione inflitta, fu un bagno di strette di mano.

Troppo avanti? Troppo laterale? Troppo furbo? Troppo impunito? Il sospetto è che Silvio Berlusconi sia stato semplicemente, sempre troppo italiano.

© RIPRODUZIONE RISERVATA