È allarme, in tutta Italia, per la carenza di medici di medicina generale. Una crisi annunciata da tempo, che però Stato e Regioni non hanno saputo evitare. E che porterà a inevitabili difficoltà nella gestione della sanità territoriale, con l’invecchiamento della popolazione e il conseguente aumento delle cronicità che richiedono assistenza.

La pandemia ha messo ancor più in risalto il ruolo fondamentale svolto dai medici di base, su cui poggia il funzionamento dell’intero servizio sanitario nazionale. Eppure sembrano ormai croniche le difficoltà in cui versa questa professione che, a fronte di un numero elevato di pensionamenti, non ha appeal sui giovani laureati in medicina, col rischio di essere vista come un ripiego per chi non riesce a entrare nelle scuole di specializzazione.

Secondo i dati pubblicati a inizio settembre dalla Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC) relativamente a otto regioni censite, gli ambiti territoriali carenti per l’assistenza primaria sono in tutto 1.213. Di questi, circa un terzo è concentrato in Veneto.

Al Veneto il (poco invidiabile) record

Anche i dati diffusi dall’Azienda Zero regionale, aggiornati al 23 luglio 2021, confermano il quadro preoccupante: le zone carenti in Veneto sono 558 e, di queste, il tasso più alto appartiene a Verona, con ben 123 sedi in difficoltà. Un triste primato per l’ULSS 9 Scaligera, che appare ancora più grave se pensiamo che l’ULSS 6 di Padova, seppur con 40 mila abitanti in più rispetto al territorio veronese, di zone carenti ne ha “solo” 72.

«Una situazione segnalata da tempo alle istituzioni, che in Veneto sta diventando drammatica», commenta Guglielmo Frapporti, segretario provinciale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG).

È boom di pensionamenti

Il quadro è destinato a peggiorare ulteriormente in questi ultimi mesi dell’anno, perché nell’ULSS 9, tra settembre e ottobre, andranno in pensione tredici medici di famiglia e altri sei termineranno il loro incarico provvisorio. Troppo pochi, sul versante opposto, i nuovi medici che nel frattempo hanno risposto alla chiamata della Regione e accettato l’incarico: nel veronese, solo tredici posti vacanti sono stati coperti.

Guglielmo Frapporti, segretario provinciale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG)

La gobba pensionistica, già in atto da alcuni anni e che ora sta registrando il suo picco, con il 40 per cento del personale che cesserà la professione tra il 2019 e il 2025, è solo una delle cause che hanno portato a questa emorragia.

La FIMMG stima che nell’arco dei prossimi sei anni, in Italia, andranno in pensione più di 35 mila medici di base. Considerando che un camice bianco gestisce fino a 1.500 pazienti, significa che milioni di cittadini rimarranno senza medico.

«Ad oggi, circa 20 mila veronesi non hanno un medico di famiglia e sono assistiti da medici con incarichi temporanei, che normalmente cambiano due o tre volte l’anno», spiega Frapporti. «E la cifra rischia di raddoppiare a fronte dei pensionamenti di questi mesi, con l’impossibilità, in molte zone, di assorbire i pazienti dei medici pensionati». Perché, oltre al fatto che la maggior parte dei medici attualmente operativi ha già raggiunto il massimale di assistiti, al problema dei pensionamenti si aggiunge la mancanza di un ricambio generazionale adeguato.

L’assenza di nuove leve…

L’iter per diventare medico di base prevede, dopo la laurea in medicina, un corso della durata di tre anni strutturati in 1.600 ore di teoria e 3.200 di attività pratica.

I corsi sono organizzati a livello regionale e la determinazione dei posti disponibili per ciascuna Regione avviene d’intesa con il Ministero della Salute, in relazione al fabbisogno previsto e alle risorse disponibili.

Negli anni, tutto il territorio italiano ha scontato errori nella programmazione dei bandi, con meno posti disponibili rispetto a quelli necessari per fronteggiare i pensionamenti. Nel 2019, ad esempio, con 2.864 medici di medicina generale andati in pensione, le borse di studio previste sono state 1.765.

Era in linea con questa tendenza anche il Veneto che, con i suoi quasi cinque milioni di abitanti, fino al 2017 bandiva solo cinquanta posti l’anno. Numeri che fortunatamente stanno vivendo un trend di crescita, con 126 borse di studio concesse quest’anno e un totale di 500 allievi che si sono iscritti nel triennio 2019-2021. E che sono destinati ad aumentare grazie al PNRR, che prevede risorse per aggiungere altre 900 borse per i prossimi tre anni.

…e le sirene della continuità assistenziale

C’è anche da dire che la medicina di famiglia sembra non essere più attrattiva per i neolauareati.

A detta della FIMMG, le scelte operate negli ultimi anni dalla Regione Veneto, anziché favorire l’ingresso di una nuova generazione di medici di famiglia, hanno contribuito ad azzoppare ulteriormente la categoria: l’investimento effettuato sulle Unità Sanitarie di Continuità Assistenziale (USCA), create per potenziare l’assistenza domiciliare dei malati di COVID-19 e alleggerire il carico degli ospedali, avrebbe di fatto offerto ai giovani medici un’opzione di carriera più remunerativa.

«I giovani laureati vengono attratti dalle USCA e dirottati a fare servizi supplementari negli hub vaccinali, nel contact tracing e negli uffici, dove vengono pagati 40 euro all’ora», continua Guglielmo Frapporti: «un compenso ben superiore rispetto ai 23,4 del valore orario riconosciuto per i medici di base».

Anche durante il corso di formazione, il trattamento economico riservato agli aspiranti medici di famiglia differisce rispetto a quello previsto per le scuole di specializzazione: gli allievi del Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale ricevono una borsa di circa 10 mila euro l’anno, soggetti a Irpef e con contributi a carico; gli specializzandi, invece, sono pagati 26 mila euro l’anno, contributi inclusi e senza Irpef.

La Regione cerca di tamponare

Per rimediare alla sofferenza che sta colpendo la medicina territoriale, in Veneto finora si è proceduto con l’attivazione di incarichi provvisori a giovani medici senza specializzazione e con la richiesta ad alcuni dottori di superare il massimale degli assistiti.

«Gli errori del passato comporteranno inevitabilmente, nei prossimi anni, la necessità di aumentare fino a 2.000, o anche di più, il numero di assistiti per medico. Ma in questo modo non si garantiranno cure adeguate, considerando che ogni medico di famiglia ha attualmente in carico circa 600 persone con almeno una malattia cronica, 340 delle quali in condizioni di fragilità e 20-25 che non possono spostarsi dal domicilio», commenta Frapporti. «A una situazione così grave non si rimedia con soluzioni tampone. Serve invece un progetto complessivo di potenziamento della medicina generale».

Quali vie di uscita?

Oltre a un cambio di passo nella formazione, che riconosca la medicina di famiglia come una specializzazione al pari delle altre, secondo il rappresentante della FIMMG «va colmato il ritardo storico in cui è stata lasciata la medicina di famiglia in Italia rispetto agli altri paesi europei più evoluti, potenziando l’associazionismo e creando un servizio di medicina di famiglia multidisciplinare, con la dotazione di personale di segreteria e infermieristico, assistente sociale e altre figure».

Cosa prevede il PNRR

Proprio in questo senso, un primo segnale arriva dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che destina al potenziamento della sanità territoriale circa nove miliardi, dei quali due saranno destinati all’apertura, entro il 2026, di 1.288 “Case della Comunità”, strutture sanitarie multidisciplinari che riuniranno sotto lo stesso tetto medici di famiglia, specialisti, infermieri e altre professionalità.

«Le “Case della Comunità” dovranno essere dimensionate non in termini di numero di abitanti, bensì in base alla densità abitativa per chilometro quadrato, e dovranno essere attrezzate con dotazioni di diagnostica strumentale di base, indispensabili per evitare ricorsi impropri agli specialisti e all’ospedale», spiega Frapporti. «Certo è che, in Veneto, già il Piano socio-sanitario 2012-2016 prevedeva forme associative come la Medicina di Gruppo Integrata, il cui sviluppo è stato però interrotto nel 2018 con un taglio dei fondi».

Altri punti cardine del Recovery Plan saranno l’attivazione di “Ospedali di Comunità” (strutture sanitarie a gestione prevalentemente infermieristica e destinate a pazienti che necessitano di piccoli interventi e ricoveri di breve durata), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina e un più efficace coordinamento dei vari servizi sociosanitari del territorio.

Ripensare la figura del medico di base?

Nel dibattito pubblico, c’è chi parla di rivedere le regole di ingaggio dei medici di base, che oggi sono liberi professionisti convenzionati con il servizio sanitario nazionale, il cui lavoro è disciplinato da accordi collettivi triennali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali e dalla Conferenza Stato-Regioni.

Nei giorni scorsi, gli assessori alla sanità delle Regioni italiane hanno sottoscritto un documento di dodici pagine fortemente critico su come i medici di medicina generale hanno affrontato la gestione della pandemia. Nello specifico, l’attuale modello della medicina di territorio viene ritenuto non più all’altezza e, in vista dell’attuazione del PNRR, le Regioni ne chiedono una profonda rivisitazione al Governo. Per i medici di base si prospetta un futuro da dipendenti pubblici?

L’Assessore alla Sanità della Regione Veneto Manuela Lanzarin

Secondo il segretario provinciale della FIMMG, sarebbe una soluzione incompatibile con il rapporto fiduciario tra medico e cittadino, che danneggerebbe la continuità assistenziale e le cure di prossimità legate alle comunità locali. «I medici diventerebbero dei funzionari intercambiabili», avverte Frapporti.

Una riforma di questo tipo porterebbe con sé anche un problema di costi, «insostenibili per il servizio sanitario nazionale: come liberi professionisti convenzionati, i medici di base mettono a disposizione, a proprie spese, circa 70 mila ambulatori, dal centro delle metropoli ai più sperduti paesini di montagna. Proviamo solo a immaginare i costi e i problemi di gestione che lo Stato avrebbe, se dovesse garantire in autonomia questa presenza capillare».

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