Pietro Albi è co-fondatore delle associazioni One Bridge to e RedLab, due associazioni che da tanti anni ormai si occupano di aiutare i rifugiati che si trovano sulla famigerata “rotta balcanica“, ma anche di creare e sviluppare progetti a sostegno nel Kurdistan iracheno, un’area nel Medio Oriente la cui popolazione vive da decine di anni situazione di grande difficoltà a causa dei ripetuti genocidi subiti, delle guerre ancora in atto nell’area e del mancato riconoscimento internazionale.

Albi, innanzitutto ci racconti qual è la situazione attuale nel Kurdistan?

Pietro Albi. Foto di Sirio Tommasoli – Archivio Tommasoli

«Lavoriamo nel campo di Bajed Kandala, situato al confine fra la Siria e l’Iraq, nella zona autonoma del Kurdistan iraqeno. Ci stiamo in particolare occupando di supportare l’attività della clinica medica del campo e di organizzare attività all’interno del community center che l’associazione Joint Help for Kurdistan ha creato. In seguito alla morte della sua fondatrice, Neman Ghafouri, si è deciso che la squadra che conduceva quel community center dovesse fondare una nuova associazione, Imprint of Hope (“Impronta di speranza”). È una ONG locale, la prima fondata da persone sfollate dal loro paese a causa di guerre e violenze e composta da Ezidi e musulmani, insieme.»

Nel dicembre 2022 c’è stato un rovinoso incendio che ha bloccato a lungo l’attività del campo. Cosa è successo da allora?

«Dopo l’incendio che aveva distrutto la clinica c’è stata una lenta ricostruzione. A questo proposito vorrei ricordare la figura di Claudio Bassi, che ci ha dato una grossa mano nella raccolta fondi e che purtroppo è mancato qualche mese fa.

A gestire il campo siamo rimasti RedLab e One Bridge , insieme a Imprint of Hope che porta avanti l’attività di questo campo dove vivono oltre dodicimila persone, di cui almeno quattromila cercano di tornare nel loro territorio d’origine, in Shingal, che però al momento non è per loro sicuro, visti i continui bombardamenti da parte del governo di Erdogan in quelle zone. Anche per questo in Kurdistan oggi ci sono in totale 28 campi, frequentati da Ezidi e Siriani.

L’incendio che ha distrutto la clinica del campo di rifugiati

Gli Ezidi sono in totale quasi 300mila. Vorrebbero tornare in Shingal, che fino al 2014, prima del genocidio perpetrato da Daesh, era ancora sotto il controllo del Kurdistan iracheno. Poi la situazione si è enormemente complicata: quei territori sono stati prima presi in mano dalle Forze Armate irachene, poi sono arrivate le Forze Democratiche Siriane e le Forze Democratiche Ezide. A tutto questo si aggiunge la presenza nell’area del PKK, degli Americani e pure dell’esercito kurdo-iracheno nel nord. Una situazione geopolitica di una complessità pazzesca e di difficile soluzione.»

Le ambizioni turche su quelle zone non facilitano, peraltro…

«I bombardamenti dei turchi mirano, almeno ufficialmente, a colpire i rappresentanti del PKK, accusati di attentati e terrorismo. È una strategia della tensione diffusa, utilizzata, come abbiamo visto, anche di recente da Israele che, con la scusa di colpire Hamas, è responsabile del genocidio dei Palestinesi. I turchi hanno la responsabilità della guerra e dello sfollamento in quell’area. Questi popoli potrebbero vivere tranquillamente in quella zona del Kurdistan, senza i bombardamenti turchi. La Turchia è un Paese NATO che bombarda un Paese terzo, colpendo civili inermi. E nessuno fa nulla per fermarli.»

Il campo di Bajed Kandala – Foto di Pietro Albi

A questo si aggiunge che l’Iraq di oggi non ha la forza, e quindi la possibilità, di rispondere a questi attacchi. In altro contesto scatterebbe una guerra con la Turchia, che al contrario oggi fa quello che vuole…

«Se l’Iraq fosse per assurdo ancora in mano al governo Baathista di Saddam Hussein ci sarebbe sicuramente una guerra che coinvolgerebbe la Siria e il Libano, reprimendo duramente tutte le popolazioni che vivono in minoranza nel Paese. Ma non c’è nessuno in quell’area che può davvero contrastare la potenza turca. È una zona contesa e su cui ci sono molti interessi perché ricchissima di petrolio, da sempre moneta di scambio e accordi tra Iraq e Kurdistan Iracheno. Anche il Kurdistan iracheno, peraltro è una complessa regione, portata avanti in maniera esclusiva dalla famiglia Barzani, rafforzata nel 2017 quando il governo iracheno non ha riconosciuto il referendum sull’indipendenza della regione del Kurdistan riprendendo il controllo della regione di Kirkuk togliendo la maggior parte dei voti al secondo partito più importante in Kurdistan Iracheno. La mediazione tra i due governi, se così possiamo definirla, è portata avanti da sempre dalla presenza degli americani sul territorio e per questo in zona ci sono continui spostamenti di truppe militari americane che passano da uno Stato all’altro. Erdogan vorrebbe creare una fascia di trenta km dal confine con la Siria con la scusa di creare una sorta di cuscinetto di sicurezza, ma sicuramente quello che vuole è anche il petrolio. E chi ci rimette, come al solito, sono i civili bombardati e sfollati dalle loro terre.»

Torniamo al vostro progetto. Come si sta sviluppando?

«Aiutiamo a gestire nel campo la clinica e il community center sia con supporto tecnico e con supporto economico. La clinica visita circa 2000 persone al mese e non si tratta solo degli abitanti del campo-villaggio ma anche di persone provenienti dai tanti villaggi che gravitano là intorno, perché si tratta comunque di una zona distante da ospedali o strutture di primo o secondo livello sanitario. Nella clinica lavorano nove operatori, fra medici, infermieri, farmacisti, amministrativi e tecnici di laboratorio. Il community center, invece, si occupa di fornire attività formative e culturali come lezioni e corsi di letteratura, fotografia, inglese, informatica e auto-narrazione.

Il community center – Foto di Pietro Albi

In più c’è un centro per la donna e un altro di salute mentale, per sopperire al grave accumulo di stress post-traumatico tipico dei profughi e dei rifugiati, che sfocia il più delle volte in suicidi, soprattutto da parte di adolescenti, più fragili e non in grado di sopportare il peso di questa condizione. Con questo programma siamo riusciti a limitare questo fenomeno, tanto che dai circa 20 suicidi del 2022 (su una popolazione di 12mila persone un dato enorme, ndr) siamo arrivati a non averne più nessuno nel 2023 appena finito. Da quando è partito il programma non ce ne sono più stati e questo è già un grande risultato.»

Quanto costa tutto questo?  

«Tutto il progetto costa circa 190mila dollari all’anno. Che, considerati i numeri delle persone a cui si rivolge e i servizi creati, è davvero pochissimo. Questo anche perché si è creata una sorta di autonomia circolare interna, che permette al progetto di sostenersi almeno in parte. Il problema è stato che dopo l’incendio dell’anno scorso siamo rimasti letteralmente senza soldi. Attraverso dei donatori siamo riusciti a racimolare 24mila dollari per il 2023. Noi portiamo giù volontari, ma non lavoriamo costantemente giù. Abbiamo formato le persone, ma anche loro, però, ci hanno formato in questi anni su tanti aspetti. Questo scambio, che spesso la cooperazione internazionale non riesce a creare, arricchisce entrambe le parti. Loro sono partecipanti di un progetto condiviso come partner.»

Un esempio di formazione da parte loro nei vostri confronti?

«Può essere anche un’analisi migliore sul territorio. Quando abbiamo affrontato il tema economico, ad esempio, con loro siamo riusciti a capire come funzionano le leggi nel loro Paese, soprattutto quelle di bilancio relative alle associazioni. Questo ci ha permesso di capire molte cose e di migliorare il nostro controllo interno. Dall’altro lato ci hanno anche aiutato a capire meglio se gli strumenti che abbiamo pensato per loro vanno bene o meno e in qualche caso a riformularli.»

Il campo di Bajed Kandala visto dall’alto

Ci può spiegare meglio?

«Una questione importante per loro è quella relativa alla cura della donna. Per la loro cultura è fondamentale che le donne siano visitate da dottoresse donna. Noi però non eravamo in grado di pagare, oltre al dottore uomo, anche una dottoressa donna e abbiamo risolto la questione grazie ad uno strumento, un ecografo, che ha permesso – grazie alla collaborazione di una ostetrica-farmacista che ha messo a loro agio le donne che dovevano essere visitate – ad un dottore uomo di visitare, da una stanza diversa, la paziente donna.»

Sono ormai sei anni che avete avviato, nel 2018, questo progetto. Come si è evoluta la situazione da allora?

«Dobbiamo fare un po’ un cambio di prospettiva. Siamo riusciti a marginare una cosa che magari domani accade di nuovo. Siamo riusciti a mantenere attivo questo controllo della squadra. Quando il community center si è fermato per mancanza di fondi ci siamo concentrati sulla clinica, perché l’aspetto medicale era quello primario. In quel momento, però, abbiamo capito che tante cose si sono fermate. C’è una realtà governativa che fa fatica a dare indipendenza a questa realtà. E sto parlando del Kurdistan iracheno, le cui “diffidenze” si sono accentuate dal 2021, da quando c’è stata la pandemia da Covid. Il terzo settore può portare fondi ingenti dall’Europa ma questo flusso va monitorato perché alcuni di quei fondi possono prendere strade diverse da quelle a cui sono destinati. Il clima di tensione verso gli Ezidi è palpabile.

Bambini nel campo di Bajed Kandala – Foto di Pietro Albi

Negli uffici governativi fanno sentire senza troppi problemi che i profughi sono considerati “inferiori”. La situazione è in generale migliorata da molti punti di vista, ma questo governo non sta aiutando, anche perché in parte dipende economicamente dalla Turchia e da quella frontiera da cui passano camion e rifornimenti. Stanno di fatto facendo il conto con questa “dipendenza” e cercano di rafforzare quella che può sembrare una loro identità nazionale e nazionalistica. Questo rende per questi profughi tutto molto più complicato.»

L’Italia come vi sta aiutando?

«Abbiamo instaurato un dialogo con AICS, ma i valori per accedere ai progetti sostenuti da AICS sono molto elevati. Soltanto determinati bilanci possono entrare. Da una parte è giusto, perché in questo modo possono controllare meglio i progetti e i fondi che loro destinano, ma dall’altra non permettono a piccole associazioni di accedere a fondi con cui possono dare davvero un aiuto e contribuire a un cambiamento importante.»

E l’Europa?

«Anche il Parlamento Europeo, attraverso Elisabetta Gualmini che si è resa disponibile a valutare possibili soluzioni per un territorio, si è interessato alla situazione. Purtroppo, però, c’è l’innegabile difficoltà che stiamo parlando di territori che sono fuori da quello europeo. Abbiamo avuto in generale, quello sì, un grande aiuto da Verona, dai nostri sostenitori e da tanti anche che vivono all’estero ma che ci supportano da lontano. Anche il Comune di Verona, dopo l’incendio, ci ha aiutato a raccogliere i fondi con una serie di iniziative importanti. Si può sempre fare di più, è ovvio, ma quello che stiamo notando è che c’è sempre grande sensibilità e cooperazione.»

Per finire cosa vogliamo sottolineare?

«La cosa più importante è che questo è un progetto di vera cooperazione internazionale. Noi non siamo residenti, ma lo sono loro. Noi forniamo degli aiuti ma loro danno un contributo diretto, concreto. Ci trattano da partner e noi trattiamo loro da partner. Bisogna puntare un faro su questa realtà. Hanno subito un genocidio 9 anni fa, che già oggi in pochi ricordano e fra poco tempo nessuno lo ricorderà più. In realtà quello è stato solo l’ultimo in ordine di tempo, visto che nella loro storia ne hanno subiti ben 74. La memoria dev’essere mantenuta a lungo termine.»

Uomini che giocano a carte nel campo di Bajed Kandala – Foto di Pietro Albi

Per sostenere le attività di One Bridge to e RedLab si possono visitare i profili Instagram e i siti internet delle due associazioni. L’IBAN per le donazioni, che ricordiamo sono totalmente detraibili, è il seguente: IT88S0501811700000012405106. Si possono fare donazioni continuative: con pochi euro al mese il contributo per l’attività del campo risulta davvero fondamentale e può fare la differenza.

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