Era il 2015. Diversi avvenimenti, pur se di peso molto diverso, avevano contrassegnato quell’anno: avevo salutato il gruppo scout Verona 6 in cui avevo prestato servizio come capo per tre anni e la cooperativa di architetti e ingeneri di cui ero socio era andata in liquidazione con la conseguente perdita per me del lavoro e di un anno di stipendi.  Stavo peraltro ristrutturando la casa acquistata l’anno prima ed ero diventato papà per la terza volta. Indubbiamente uno dei momenti più complicati della mia vita. In quello stesso anno, quotidianamente, assistevo sui network nazionali ed internazionali ancora passivamente alle condizioni terribili in cui migliaia di migranti erano costretti a vivere a causa delle guerre e delle persecuzioni che flagellavano il Medio Oriente. Ero di fronte ad un bivio: da un lato era forte la tentazione istintiva a chiudermi ancor di più nella mia condizione di forte fragilità, ma dall’altro si stava facendo strada in me il desiderio di rimettermi in gioco aprendomi verso gli altri, nella consapevolezza che c’è sempre qualcuno che sta peggio di te. In modo dapprima quasi inconsapevole, cominciò ad affacciarsi la voglia di partire per andare incontro agli altri, ma ero ancora molto confuso. Ci sono, però, degli eventi che possiamo ritrovare in odori, suoli o immagini che segnano la nostra vita. Uno di quelli è stata la drammatica immagine del piccolo Aylan Kurdi di Kobane in Siria, nato lo stesso anno di Gianluca, il mio secondo figlio, ritrovato morto nelle spiagge turche dopo che il Canada si era rifiutato di riconoscere alla sua famiglia il visto umanitario.

Aylan Kurdi

Nei giorni successivi, un’altra immagine rimbalzò su tutti gli schermi televisivi e sulle prime pagine dei giornali: è quella di un’Europa attraversata ancora una volta da popoli in fuga, che ricorda gli esodi degli anni Novanta nell’ex Yugoslavia o, peggio ancora, le deportazioni degli ebrei. Di fronte a queste immagini restai attonito, incredulo nel vedere come ancora una volta l’Europa fosse impreparata e incapace ad affrontare in modo serio a quella tragedia umanitaria. Come noto, per fermare questo esodo nel marzo del 2016 sarebbe stato poi sottoscritto un accordo tra Europa e Turchia per fermare (o quantomeno ridurre drasticamente) il flusso di migranti e rifugiati che, in assenza di corridoi umanitari sicuri, raggiungeva con ogni mezzo disponibile l’Europa attraversando il Mar Egeo o percorrendo la rotta balcanica (si contarono più di 850.000 migranti nel solo 2015).

All’indomani di quell’accordo, Idomeni, piccolo paese greco al confine con la Macedonia, che già ospitava un centro di transito per migranti, si è trasformato nel più grande campo profughi d’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Di fronte a questa ennesima tragedia e al rifiuto dell’Europa di accogliere queste persone, a Idomeni giungono in brevissimo tempo centinaia di migliaia di tende che giovani e meno giovani da tutta Europa decidono di donare come segno di solidarietà per quei migranti che, oltre ad aver lasciato il proprio paese, i propri cari e i propri averi, avevano pure perso la speranza di giungere in terra europea, alla disperata ricerca di un porto sicuro. Fu grazie proprio ad una tenda che la mia vita prese una direzione nuova, che mi ha cambiato profondamente. Era il febbraio del 2016 mi stavo preparando per il trasloco, programmato per giugno, quando in cantina ritrovai una tenda della “Decathlon” che mi era stata regalata qualche anno prima da un religioso del Monastero del Bene Comune di Verona e che io avevo accantonato in un angolo della mia cantina. Come un fulmine a ciel sereno, presi in mano quella tenda, la portai in casa e dissi ad Anna, mia moglie: «Questa tenda la porto a Idomeni!» La risposta di Anna fu altrettanto decisa: «Va bene, ma dopo il trasloco!». «No – risposi io – la tenda serve subito, non possiamo aspettare!»

Profughi sulla rotta balcanica

I miei dubbi oscillanti tra lo stare rinchiuso nel mio “io” e tra l’andare incontro “all’“l’altro” svanirono all’improvviso. Decisi così, assieme ad Anna, di chiamare subito i ragazzi scout che avevo appena lasciato, per organizzare assieme a loro il viaggio per raggiungere Idomeni. Partimmo a fine marzo in cinque. Con me scesero Jacopo, Edoardo, Martina e Nicola.

Da quel giorno non abbiamo più smesso di percorrere la rotta balcanica in aiuto e sostegno agli accampamenti spontanei che negli anni sono sorti in Grecia, Serbia e Bosnia-Herzegovina. Da cinque che eravamo, ad oggi sono più di 200 i volontari di “One Bridge to Idomeni” (l’associazione nata da quel viaggio) che sono scesi lungo la rotta. Quello che facciamo è portare aiuti concreti (scarpe, vestiti, cellulari, ecc.) e materiale acquistato direttamente sul posto (es. legna, cibo, medicinali), ma anche fondi di tipo economico per attivare e sostenere progetti direttamente sul posto in collaborazione con altre associazioni. In questi anni, in base alle esigenze riscontrate nelle diverse tappe della rotta, ci siamo occupati di diversi progetti: dalla realizzazione di campi da gioco, stufe, panche e tavoli alla preparazione e distribuzione dei pasti o all’organizzazione di corsi di italiano e inglese.