Approfondire la tematica del cosiddetto “femminicidio” e della violenza contro le donne non è stato semplice: impossibile non provare rabbia, frustrazione e desiderio di chiudere occhi e orecchi davanti alle storie terribili e ai numeri assurdi in cui ci si imbatte. Ma è stato importante farlo, proprio perché se non ci si rende pienamente conto di quanto è grave la questione, quanto è vicina a noi e alla nostra bella vita. Trovare soluzioni sarà quasi impossibile.

La parte più sconcertante è stata la rivelazione dell’ampiezza del “fenomeno violenza” nelle generazioni più giovani, permeate fin dalla tenera età da comportamenti fuori controllo, siano essi subiti, assistiti oppure agiti. Ci sono molte forme nella violenza dei ragazzi, resa spesso ancor più perversa dalla loro dimestichezza con le tecnologie. Ecco allora che il bullismo diventa cyberbullismo, maldicenze e pettegolezzi si trasformano in revenge porn, alla violenza fisica, individuale, si preferisce il cosiddetto shaming di gruppo, con la vittima costretta a subire soprusi e insulti anche da perfetti estranei, trascinati nel vortice dall’esposizione sui social media.

La campagna dedicata agli adolescenti

L’Osservatorio Nazionale Adolescenti ha condotto, nel corso del 2019, un programma di interventi in collaborazione con Skuola.net, un sito molto popolare tra i ragazzi. Nell’ambito di “Don’t slap me now”, questo il nome del progetto, sono stati organizzati convegni durante le assemblee in molte città e si è creato un ambiente dedicato nel sito con approfondimenti a cadenza periodica; è stato poi stimolato il confronto tra insegnanti e studenti, con discussioni in classe e commento alle notizie, fino al concorso per il miglior video sul tema. Un approccio multistrato ma sempre con un linguaggio a misura dei ragazzi, che si sono così sentiti coinvolti e non, come spesso lamentano, soggetti passivi di un prodotto già “old”.

Tra le molte iniziative spicca, ai nostri fini, un sondaggio sulla violenza nel rapporto di coppia, che ha coinvolto oltre 7.500 ragazze di tutta Italia, tra i 14 e i 20 anni. I dati che emergono sono estremamente preoccupanti e mostrano come molte di queste relazioni affettive portino già il seme di una violenza che, seppur colpisca raramente il piano fisico ( con il 4% che dichiara di aver preso schiaffi, calci o spinte), crea nelle ragazze un condizionamento psicologico importante, con effetti sui comportamenti e il benessere.

In molti casi, i ragazzi sono troppo gelosi e possessivi, pretendono il controllo assoluto sulle amicizie, sull’abbigliamento, sul cellulare. Una mancanza di autostima che potrebbe essere anche normale, in quell’età di formazione, se non diventasse un peso per le fidanzate. Due terzi delle intervistate dichiara di aver subito più volte negli ultimi 12 mesi una scenata di gelosia per futili motivi, nel 40% dei casi di fronte ad altri amici e nel 14% con insulti pesanti. Se più del 10% dichiara di aver paura, in queste situazioni, che la reazione del partner possa diventare violenta, un dato ancor più allarmante riguarda le ragazze che si autolimitano, evitando lo sguardo di altri ragazzi per strada e – questo è terribile – sorridendo di meno. Un fidanzatino che ti toglie il sorriso non ti ama, chi ti impedisce di aprire le ali e volare non ti rispetta, se ti vuole solo per sé e vuole vestirti a suo gusto, come facevi tu con la Barbie, ti sta trasformando in un oggetto, uno dei tanti (forse troppi) di cui può vantarsi con gli amici. Il possesso, il controllo, gli ordini da eseguire, tutto questo non è amore.

Da un lato ci sono ragazzini insicuri, abituati a “fare come papà” e incoscienti delle conseguenze, tanto la passano sempre liscia, non importa quale guaio combinino; dall’altro, bambine cresciute con il mito della principessa Disney, la Bella Addormentata in attesa del bacio che la salverà. Ragazzine che mettono inconsciamente la propria vita nelle mani del partner, ancora incapaci di capire il proprio valore intrinseco, la propria forza e volontà, a prescindere da chi sta loro accanto. Non riescono a pensare alla relazione come transitoria, tantomeno come un errore da correggere prima che sia troppo tardi, non vedono via d’uscita dalla prigionia in una torre dorata. Vivono il loro amore di ragazzine come hanno visto nei film, come fanno le loro amiche e, con tutta probabilità, come l’ha vissuto la loro mamma.

Esiste una stretta relazione tra l’infanzia in una famiglia violenta, anche solo a male parole, e l’atteggiamento che si assumerà nella vita di coppia: vivere con un padre violento e una madre che accetta e subisce (o viceversa, anche se obiettivamente si parla di rari casi) danneggia l’equilibrio dei figli, che saranno portati a emulare gli stessi comportamenti, a considerare un rapporto malato la normalità e a non accorgersi delle reali criticità del rapporto finché non è troppo tardi. Dopo l’episodio violento, si replicano le stesse dinamiche degli adulti: il principe azzurro si assume le colpe, si scusa (63% dei casi) o butta un “sei troppo bella, ti amo troppo” come se questo giustificasse la reazione incontrollata. E le principesse purtroppo si sciolgono, cadono nel tranello del lieto fine scritto in ogni libraccio di letteratura romantica, convinte che con il loro amore potranno cambiare il partner. Una su tre ammette di aver creduto alle promesse che non succederà più e di aver perdonato, mentre addirittura tre su quattro dichiarano di non aver mai parlato con nessuno di quanto avvenuto.

Il libro di Maura Manca

Questo è forse il lato più triste, la solitudine in cui si rinchiudono le giovani vittime, che non trovano purtroppo punti di riferimento a cui affidare un tale segreto. Temono lo scherno e il rifiuto dei coetanei, mentre gli adulti lanciano segnali contraddittori: gli insegnanti faticano ad affrontare l’argomento (il 75% dice di non aver mai parlato del tema in classe) e i genitori sono occupati, di fretta e poco attenti, preoccupati di riempire di “cose” i ragazzi piuttosto che dar loro affetto e incoraggiamento. Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Adolescenza parla di «fallimento del ruolo genitoriale di massa che grava sulla salute mentale dei figli. Non gli serve chi fa da paracadute solo per egoismo, per fare prima o perché non si ha voglia di discutere con il figlio; i ragazzi devono crescere con la consapevolezza di un legame sicuro, di essere riconosciuti e accettati, in modo da imparare a risolvere i problemi da soli, per poter osare e sperimentare, sicuri di avere sempre dei pilastri su cui contare».

Se questi pilastri sono già deteriorati da una famiglia violenta, il cammino è più arduo, ma non impossibile. Dobbiamo partire da noi stesse, ammettere intimamente il fallimento e abbandonare la paura di restare sole. Lo dobbiamo fare per noi stesse e, forse ancor di più, per i nostri figli, in modo che possano avere la possibilità di azzerare tutto il male e ricominciare da capo. Se poi siamo genitori di una famiglia senza problemi, non diamo per finito il nostro impegno: impariamo a riconoscere i segnali di un disagio, le reazioni strane e forziamo i silenzi troppo lunghi. Cerchiamo un dialogo, mettiamoci nelle loro scarpe puzzolenti e guardiamo il mondo coi loro occhi (magari anche coi loro smartphone, in totale trasparenza). Aiutiamoli a riconoscere le forme e i nomi dei draghi sul loro cammino, diamogli le armi per combattere i mostri e guardiamoli diventare persone migliori di noi.

A differenza nostra, loro imparano in fretta.