Sono passati esattamente cinque anni da quella tragica notte fra il 2 e il 3 agosto del 2014, quando i combattenti del gruppo terroristico Daesh piegarono con la violenza la regione del Sinjar, nel nord dell’Iraq, sterminando migliaia di persone appartenenti all’etnia Yazida e abbandonandosi a ogni sorta di sopruso. Un evento di cui si parla poco, ma che ha lasciato e lascerà traumi importanti nella popolazione sopravvissuta, che sta subendo da allora ogni sorta di disagio. Gli Yazidi sono un’antichissima e per molti aspetti ancora misteriosa popolazione presente soprattutto nella regione mesopotamica, considerata apostata dai fanatici terroristi – dal momento che la loro religione è una sorta di sincretismo nato dal contatto e dalla contaminazione di diverse religioni, comprese il Cristianesimo e l’Islam –. Un genocidio, quello, che ha portato questa etnia, come altre nella storia, ad una vera e propria diaspora, tanto che oggi esistono comunità di Yazidi negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania e in altri luoghi dell’Occidente, dove hanno trovato riparo e provato a costruirsi una nuova vita. Molti di loro, però, vivono ancora nella stessa regione in cui hanno sempre vissuto, lottando ogni giorno contro la fame, il freddo e la mancanza dei beni di prima necessità. Una situazione difficile, che mina psicologicamente, oltre il ricordo dell’eccidio, soprattutto le giovani generazioni, che rischiano di portarsi a lungo nell’anima questo tipo di ferite. Proprio per questa ragione parte da Verona, in questi giorni un’iniziativa importante di sostegno a quella sfortunata popolazione.

La dottoressa Neman Ghafouri

Il progetto “Red Lab – Darkroom over the borders” nasce, però, circa un anno fa da un’idea di Filippo Tommasoli, Gloria Gemma, Elena Grigoli e Pietro Albi. Quest’ultimo, nell’agosto del 2018, aveva già diretto insieme a Gloria Gemma un laboratorio fotografico a Bajed Kandala, nel Kurdistan iracheno, nel centro gestito dall’associazione svedese “Joint Help for Kurdistan”, che si trova all’interno del campo UNHCR. In questo campo (foto di copertina), nato dall’iniziativa della dottoressa kurda Neman Ghafouri, sono ospitate oggi circa 12mila persone, che vivono ormai da cinque anni in tenda e in situazioni psicofisiche complicate. Albi, vicepresidente dell’associazione “One Bridge to Idomeni” – che da alcuni anni si occupa di dare sostegno ai rifugiati stipati nei campi di accoglienza alle frontiere balcaniche e in Grecia – ha proposto un laboratorio per promuovere attraverso la fotografia analogica e la stampa in camera oscura l’espressione delle persone che hanno sofferto traumi e per chi vive o proviene in situazioni difficili o svantaggiate. «Il lavoro di Ghafouri è fondato sulla riabilitazione mentale di queste persone dal trauma che hanno subito», ci spiega. «Fra le altre cose ha anche fondato una squadra femminile di calcio, sicuramente inconsueta da quelle parti. Questa dottoressa ha il grande potere di riuscire a restituire fiducia in se stessi alle persone e questo coincide perfettamente anche con la nostra visione e, di conseguenza, con il nostro progetto. Noi con “Red Lab” non forniamo terapie, ma mezzi differenti di autoespressione. Sono foto, ottenute con la particolare tecnica ancestrale del foro stenopeico, con una trama patinata e che permette di realizzare immagini molto personali e vicine al surrealismo. Tutto questo permette a ciascuno di raccontare il proprio io in modo creativo ed è un mezzo potentissimo per recuperare fiducia. Ci rivolgiamo, con questa missione, soprattutto ai giovani, che sono già il nostro presente e non solo – come spesso si dice – il nostro futuro.»

Pietro Albi, al centro, mentre illustra il suo progetto

La tecnica utilizzata (che permette di realizzare macchine fotografiche con qualsiasi oggetto concavo – di solito latte – e della carta fotosensibile) non era mai stata applicata in queste terre di frontiera. In Kurdistan Albi e Gemma hanno lavorato all’epoca con una ventina di ragazzi adolescenti e una volta tornati in Italia hanno deciso di dare un senso a quel suo primo viaggio in zona, realizzando con il materiale ricavato dal laboratorio, insieme ai nuovi soci Filippo Tommasoli ed Elena Grigoli, un libro fotografico. Grazie anche alla collaborazione con Fonderia 20.9 a fine luglio 2019 viene dato alle stampe This picture is a normal picture. «Il senso di quest’opera ci viene dato da una frase di Fatma, una ragazza che ha partecipato al laboratorio, che ha descritto descritto il suo lavoro con  la frase che da il titolo al libro», spiega ancora Albi. «Una frase che può essere interpretata in più modi: è vero, infatti, che si tratta di una foto normalissima (come tutte quelle presenti nel libro), ma è anche vero che quella foto arriva da un contesto tutt’altro che normale. Ricordiamo che in quel campo ci sono migliaia di persone che vivono da cinque anni in tende, in condizioni disagiate, nonostante le rassicurazioni delle Nazioni Unite che avevano promesso che in un paio d’anni avrebbero risolto il problema logistico dei sopravvissuti al genocidio.»

Il furgone su cui viaggeranno Albi e Mazzi

Domani, sabato 3 agosto 2019, Pietro partirà  con la sua compagna Giuditta Mazzi in un viaggio di oltre 3500 km che li porterà, attraverso i Balcani, il Bosforo, la Turchia, fino al campo gestito dalla dottoressa Ghafouri, a cui verrà consegnato a mano il libro e regalato lo stesso furgone su cui viaggerà la coppia. Furgone che è stato decorato simbolicamente da un disegno dello street artist Pier Paolo Spinazzé, in arte Cibo e oltre ad essere un mezzo di trasporto ha anche la funzione di essere – dopo gli opportuni allestimenti – una “camera oscura su ruote”. «Durante il viaggio scatteremo una serie di foto che racconteranno passo dopo passo il nostro percorso e che saranno postate sui profili social di Red Lab (Instagram e Facebook)» racconta ancora Pietro Albi. «Da questa esperienza nascerà anche un documentario, dal titolo From the Dark, che ci verrà prodotto dalla casa editrice bresciana 5e6 Film. Al momento stiamo ancora cercando di raccogliere i fondi per realizzarlo e acquistare il libro può essere una forma per sostenere la nostra iniziativa. Quando avremo raggiunto il budget manderemo in Kurdistan le persone che realizzeranno il documentario, che appunto avrà il compito di raccontare il contesto yazida e i laboratori che si faranno laggiù con Red Lab e non solo.» prosegue Albi, che poco dopo la partenza da Verona, incontrerà il 4 agosto a Belgrado Jacopo Rui, suo socio di “One Bridge to Idomeni” che a sua volta sarà di ritorno a Verona da Chios dove ha seguito direttamente un progetto di supporto ai rifugiati lì accolti. Per riuscire a raggiungere la meta in Kurdistan saranno particolarmente importanti per Albi e Mazzi i contatti con i rappresentanti locali, che in una zona al confine fra Iraq, Turchia e Siria, avranno il compito di aiutarli ad attraversare la frontiera. «La nostra è un’azione che vuole anche far capire a tutti che i confini sono spesso mentali e che le distanze che ci separano da queste persone non sono poi così ampie. In fondo, se ci si pensa, 3500 km non sono tantissimi e chi arriva da noi da quell’area può essere considerato nostro vicino di casa. Il mondo è davvero piccolo rispetto alla grandezza dell’universo» conclude Albi.

L’itinerario, attraverso i Balcani e la Turchia, di RED LAB

Il libro, che è stato presentato mercoledì sera a Verona durante un affollato incontro pubblico che aveva anche lo scopo di illustrare la missione, sarà messo in vendita online da settembre dall’Archivio Tommasoli. Dobbiamo ringraziare MAG, One Bridge to Idomeni, Eco Comunicazione. Pietro e Giuditta tornerranno a Verona il 20 agosto e organizzeranno un altro evento a settembre e un successivo tour a Brescia, Cagliari, Vicenza, Bologna e Trieste per presentare il libro e il documentario che verrà realizzato.

Giulio Saturni (Presidente di “One Bridge to Idomeni”) e Pietro Albi