Andrea Scanzi pubblica una foto ammantata di amarcord con Alessandro Di Battista, sottolineando, oltre alla lunga amicizia, il carattere di idealista dell’esponente – ora ex – del M5S. «Gli ho sempre detto che era troppo idealista e troppo poco pragmatico per fare il politico. Infatti è così. E per me è un complimento» scrive Scanzi e, in effetti, piaccia o non piaccia, in questo momento politico chi finora ci fa la figura migliore è proprio l’idealista Alessandro. Che, almeno, può dire di non avere avuto parte alcuna nella tristissima figura che i 5 Stelle hanno rimediato nell’assegnazione dei ministeri del Governo Draghi.

Alessandro di Battista e Andrea Scanzi (immagine tratta dalla pagina FB di Scanzi)

Il meno idealista Matteo Salvini, nel frattempo, è passato dall’indipendenza della Padania al progetto sovranista e antieuropeista e, adesso, ha ben tre ministeri nel governo europeissimo di Draghi, tra cui quello molto “pesante” di Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo economico.

L’ancor meno idealista Silvio Berlusconi, per il quale il titolo morettiano di “caimano” oggi è onestamente una medaglia, semplicemente rimanendo alla finestra si accaparra tre ministeri veri. Che i nomi indicati (Brunetta, Gelmini e Carfagna) sembrino provenire da un altro tempo, espressione di archeologia politica e dell’usato sicuro, poco importa. Nell’attesa, intanto, con una telefonata all’amico Putin ha liberato i 18 pescatori di Mazara del Vallo, da oltre cento giorni ostaggi in Libia, facendo il lavoro di Luigi di Maio (riconfermato, incredibilmente, al Ministero degli Esteri).  

Zingaretti e il suo insipido PD, partito erede di una lunga tradizione ideologica sapientemente annacquata nel neoliberismo e nascosta in cantina, si prendono a loro volta tre dicasteri veri.

E Renzi? Sembrerebbe davvero lo sconfitto. Non lo è: da solo ha demolito Conte, ha preso in giro tutti con la narrazione del MES (ci serve, ci serve!) e ora che ha messo Draghi dove voleva il MES non serve più. Magistrale. E se pure ha ottenuto un ministero “piccolo” (le Pari Opportunità) può ora puntare a diventare il portavoce della NATO lasciando agli altri l’onere di puntellare le macerie.

Fuori dai giochi, Giorgia Meloni, così come il Dibba, mantiene alta la bandiera della coerenza e rimane sola all’opposizione, senza acquistare alcun incarico (eccetto un grande spazio nelle commissioni di garanzia e nel Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, di diritto espressione dell’opposizione, che in questo caso è il solo FdI).

Ecco insomma, se la coerenza è un valore con cui misuriamo la moralità e il valore di una persona, un valore che pretendiamo da noi stessi e negli altri, in politica chiaramente non paga. Certo, Giorgia Meloni ha guadagnato il consenso della sua base elettorale, ha cementato un’immagine di politico coerente, tutte ottime cose elettoralmente ma di votare non se ne parla e non può così raccogliere il consenso atteso. Anche Di Battista, scorrendo i commenti nei social, ha acquisito nel movimento un alone di rispettabilità.

Ma se questa vicenda può insegnarci qualcosa, è che è assolutamente sbagliato pretendere di giudicare la politica e i politici col metro di valutazione morale con cui giudichiamo gli altri. Forse, è il caso piuttosto di tornare a rileggerci il Principe di Machiavelli, che ci dimostrava con chiarezza che, per la salvezza dello Stato – unico vero obiettivo di un buon governante, necessario ad evitare che il popolo si autodistrugga – bisogna saper utilizzare con misura il leone (la forza, “i muscoli”) e la volpe (l’astuzia); che è necessario presentarsi al popolo come perfetto cristiano pur essendo disposto a rinnegarne ogni principio per il bene ultimo. Perché l’anima e la salvezza ultraterrena del Principe sono importanti, ma meno della sorte dello Stato: l’esempio paradigmatico diventa allora papa Alessandro VI Borgia, che aveva il talento indiscusso di saper mentire a tutti senza perdere mai credibilità.

Ecco dunque. Forse il metro della vita di tutti i giorni nei nostri rapporti umani, con cui giudichiamo la politica, ci avvelena l’animo giorno dopo giorno come la tortura della goccia cinese. Ne L’imperio di Federico De Roberto, pubblicato nel 1929, con la metafora della torta si affermava che si deve giudicare la politica dal risultato finale e non dalla sua preparazione. Nel film Hammamet, quasi cent’anni dopo, Pierfrancesco Favino, nei panni di Bettino Craxi, dichiarava: “Che te ne fai della lealtà di uno stupido?”. La politica non è morale, mettiamocela via e, piuttosto, ritorniamo a far uso della capacità di ricordare al momento del voto giudicando lì, finalmente, se tutto il brutto subìto ci ha dato l’agognata torta o invece, come spesso accade, la solita trista minestra.

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