«Dramma», «tragedia familiare», «tranquillo operaio», «lavoratore», «padre e marito modello», «lavorava moltissimo, mai un’assenza, sempre presente», un uomo che «aveva costruito una vita che giudicava perfetta», «legatissimo alla famiglia» e che «non sopportava l’idea di perdere i due figli». Così all’indomani dell’omicidio di Barbara Gargano, del piccolo Alessandro e della sorella gemella Aurora, i media usano parole nei confronti dell’assassino, Alberto Accastello, morto suicida, marito e padre delle vittime. 

«Milionario imprenditore mago delle startup». «Tutti sapevano, o quantomeno sospettavano, che il ricco Alberto Genovese drogasse e violentasse le donne» e «Un vulcano di idee che, per il momento, è stato spento». Di chi si parla? Dell’imprenditore Alberto Genovese, che ha drogato, stuprato e malmenato una ragazza di 18 anni durante una delle feste nella casa dell’uomo.  

E ancora: «maestra di Torino licenziata per i video hard diffusi dall’ex fidanzato in una chat di calcetto» senza specificare che si tratta di una vittima di revenge porn. Secondo lo studio di PermessoNegato.it esistono 89 gruppi o canali sull’app Telegram dedicati alla condivisione di “pornografia non consensuale”, con circa 6 milioni di utenti complessivi. 

Parliamo di fatti avvenuti in questo ultimo maledetto mese, Barbara Gargano è la 78esima vittima del 2020 secondo l’Osservatorio sul femmicidio di Prosmedia curato dalla media educator Cristina Martini.  

Parliamo di racconti mediatici non da parte di giornali di provincia ma testate autorevoli nazionali, che ancora oggi cadono nella narrazione stereotipata di una violenza di genere che sembra nascere come un “fulmine a ciel sereno”, quando invece si omettono approfondimenti lungo tutto l’arco dell’anno per descrivere soprusi, denunce, centri antiviolenza al collasso o richieste d’aiuto da parte delle donne. 

Parliamo di una polemica di certo non nuova tra queste pagine e tra tante altre testate: l’utilizzo di termini impropri quando viene commesso un femminicidio è uno dei punti centrali del lavoro di chi si occupa di affrontare questa piaga sociale. Impossibile ancora colpevolizzare la vittima, non parlare di abusi regressi invece di “raptus”, “passione” o “gelosie”, non spiegare una cultura machista che minimizza comportamenti abusanti. 

Abbiamo raggiunto Nadia Somma, attivista al Centro antiviolenza Demetra, collaboratrice di varie testate tra cui “Il Fatto Quotidiano” con il suo blog.  

Nadia Somma

Nadia, come donna impegnata e comunicatrice, volevo prima di tutto chiederle se ci sono dati nazionali sui femminicidi in Italia nell’ultimo anno, visto che l’argomento ormai ritorna a cadenza periodica sui vari media ma spesso sembra non esserci percezione sufficiente di questo fenomeno che non accenna a diminuire. 

«Al momento non c’è un osservatorio integrato sul femminicidio e ci sono diverse fonti. Quella del ministero degli Interni che rileva la relazione di parentela della vittima con l’assassino, poi registra le uccisioni delle donne ma non il movente, ovvero se si tratta di un delitto commesso per questioni di genere. Poi ci sono diversi blog che riportano il numero delle donne uccise, raccogliendo dati dai quotidiani ma si tratta comunque di una rilevazione che rischia di essere parziale. Di fatto non tutti i femminicidi finiscono in cronaca nazionale e non sempre gli inquirenti definiscono nell’immediatezza che la morte di una donna è legata a questioni di genere.

Da segnalare è il blog “In quanto donna” che da anni tiene conto dei femminicidi, raccogliendo la rassegna stampa nazionale e nel 2020 ha rilevato che, dal primo gennaio all’11 novembre, siano state uccise 69 donne.

Secondo il ministero degli Interni si conferma la tendenza per cui calano complessivamente gli omicidi, ma restano stabili i femminicidi. Nel periodo gennaio-maggio 2019, nell’ambito di relazioni affettive e sentimentali, erano state uccise 63 donne, nel periodo gennaio maggio 2020 erano state 53, corrispondendo al 58% del totale delle morti avvenute in famiglia. Restano fuori però le donne uccise nell’ambito della tratta e della prostituzione, per esempio, o donne aggredite per strada da estranei che le hanno uccise in quanto donne, e ancora quante donne che scompaiono siano vittime di femminicidio. Si tratta quindi di rilevazioni parziali.» 

Nei centri in cui lei è coinvolta come attivista da ormai 30 anni, cosa ha notato durante il primo lockdown dovuto al Covid-19? 

«Durante il primo lockdown, al mio centro antiviolenza c’è stato un notevole calo di richieste di aiuto e per due mesi il telefono non ha squillato. Ma a partire dal 4 maggio, alla fine dell’isolamento, le donne hanno ricominciato a chiamare. Abbiamo invece avuto diversi interventi in emergenza. È stato evidente che le donne avevano difficoltà a chiamare i centri antiviolenza perchè erano costrette ad una convivenza forzata in casa ed era difficile telefonare, ma crediamo che avessero anche timore di esporre se stesse e i figli al contagio. Finché riuscivano a contenere potenziali aggressioni restavano a casa, ma quando la situazione precipitava, chiedevano aiuto. Il nostro centro antiviolenza fa parte della rete nazionale “D.i.Re – Donne in rete contro la violenza”, che in quei giorni ha realizzato diversi spot, e li ha fatti circolare sui social e anche su Whatsapp, in cui si comunicava alle donne che i centri antiviolenza non avevano chiuso. Questi poi si sono attrezzati continuando a offrire alle donne la possibilità di fare colloqui via Skype o a comunicare su Whatsapp.

Le case rifugio hanno continuato ad ospitare donne e naturalmente il servizio di emergenza h24 ha continuato a essere attivo. Per quanto riguarda il dato nazionale, durante il primo lockdown, “D.i.Re” ha fatto una rilevazione sugli 80 centri antiviolenza a essa associati ed è emerso che dal 2 marzo al 5 aprile 2020, hanno chiesto aiuto 2867 donne, di cui 806 (28%) non si erano mai rivolte ai centri antiviolenza “D.i.Re”. L’incremento delle richieste di supporto rispetto alla media mensile registrata nell’ultima rilevazione statistica (2018) pari a 1643, è stato del 74,5%. Complessivamente ben 1200 donne in più si sono rivolte ai centri antiviolenza “D.i.Re” in poco più di un mese, dato che ha confermato l’esacerbazione di situazioni di violenza determinato dalla convivenza forzata.» 

Da giornalista e blogger come guarda ai media che nell’ultimo periodo ritornano a parlare in modo stereotipato di femminicidi, nonostante la formazione continua da parte dell’Ordine nazionale e nonostante il Manifesto di Venezia?  

«Negli ultimi mesi sono state scritte brutte pagine sulla violenza contro le donne. Eppure da tempo si lavora per formare e sensibilizzare giornalisti e giornaliste sul fenomeno della violenza contro le donne. L’Ordine professionale ha proposto corsi di formazione sulla violenza contro le donne per sfatare pregiudizi e stereotipi. Nel 2017 le giornaliste di “Giulia” insieme alla Commissione Pari Opportunità della Federazione Nazionale della Stampa, l’Usigrai, e il Sindacato Giornalisti Veneto hanno realizzato il “Manifesto di Venezia”, e nel dicembre del 2016 il consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha fatto proprie e condiviso le Linee Guida della Federazione Internazionale dei Giornalisti (FIJ), un documento ispirato alla Dichiarazione dell’Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne che risale al 1993. Infine la Convenzione di Istanbul all’articolo 17 incoraggia i mass media ad attuare politiche e norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità. Eppure quotidianamente continuiamo ad assistere a una narrazione distorta della violenza maschile, romanzata, estetizzata. Continuiamo a leggere articoli che colpevolizzano le vittime, deresponsabilizzano assassini e maltrattanti, confondono conflitto e violenza, raccontano il dominio e il controllo come “gelosia” o “passione”, raccontano la violenza come una “tragedia” che è accaduta quasi per caso o per un “raptus”, omettendo una analisi corretta del femminicidio.»

Il femminicidio sembra essere solo la punta dell’iceberg, l’ultimo atto estremo…

«Quando un uomo arriva ad uccidere una donna in una relazione di intimità, compie l’atto finale ed estremo di una serie di violenze e maltrattamenti che sono andati avanti a lungo. L’uccisione di una donna non è necessariamente preceduta da violenze fisiche, può avvenire dopo mesi o anni di violenze psicologiche: denigrazioni, umiliazioni, controllo della vita quotidiana, limitazione della vita sociale della partner. Non è mai un fulmine a ciel sereno. Ultimamente c’è una grave regressione culturale perchè si colpevolizzano le donne che hanno deciso di separarsi, costruendo una narrazione distorta e tanto propalata da certe lobby conservatrici. Mi riferisco alle cosiddette associazioni dei padri separati che narrano a senso unico la conseguenza della separazione come un evento che annienta economicamente solo gli uomini. I dati Istat dicono ben altro, la separazione impoverisce tutti ma in particolare le donne.

Eppure questa narrazione che demonizza la separazione quando sono le donne a sceglierla ha fatto breccia nell’informazione e spesso viene usata come scusante per chi uccide e per mettere alla gogna la vittima, dipinta come avida, irriconoscente e vendicativa. In realtà, quasi sempre le donne uccise avevano chiesto la separazione per sottrarsi a violenze, controllo o anaffettività del partner, che poi commette la violenza finale per instaurare un controllo definitivo sulla partner. Ed è vergognoso che le vittime siano rappresentate come corresponsabili o addirittura malvage. L’opinione dei lettori e delle lettrici viene suggestionata e orientata, e sui social si possono leggere commenti di commiserazione degli assassini e riprovazione per le vittime, in un competo rovesciamento etico. Sul fonte della violenza sessuale poi c’è la riproposizione dell’antico adagio “se l’è cercata” con un accanimento particolare sulle vittime se sono giovanissime, che sono esposte a una vera e propria gogna mediatica. Solitamente i peggiori esempi li troviamo nel giornalismo di provincia, ma ci sono pessimi esempi anche sulle testate nazionali.» 

Quale cambio di linguaggio si può e si deve intraprendere per modificare la rappresentazione mediatica della violenza di genere? 

«Il cambiamento deve essere culturale e non basta una formazione se i giornalisti e le giornaliste non sono messi di fronte ai loro pregiudizi, al loro sessismo, di cui spesso sono portatori e portatrici inconsapevoli. Mi riferisco non a caso, anche a giornaliste. La scorsa estate ho letto una seria di articoli scritti da una giornalista su un caso di violenza sessuale contro una giovane, che mi ha turbato per la misoginia, l’accanimento che ha oltrepassato i limiti imposti dalla Carta dei Doveri. Il problema è culturale e riguarda tutte e tutti. L’Ordine dei giornalisti dovrebbe rendere obbligatoria la formazione sulla violenza contro le donne e i direttori dovrebbero seguire l’esempio di Maurizio Molinari di “la Repubblica” che ha distribuito ai giornalisti e alle giornaliste, un decalogo “Come raccontare un femminicidio”, realizzato da un team social coadiuvato da Michela Murgia. È molto indicativo che ci siano state proteste e contestazioni.

Molti sono ancora convinti che si possano esprimere impressioni, opinioni, punti di vista del tutto personali e spesso condizionati da pregiudizi sulla violenza contro le donne, mentre il fenomeno del femmincidio ha caratteristiche ben precise e non può essere narrato come una “tragedia che accade per il dramma della gelosia” ripetendo uno schema che spesso nasconde fatti che sono accaduti come maltrattamenti continuati nel tempo che hanno preceduto la morte delle donne. Il compito dei giornalisti e delle giornaliste dovrebbe invece essere quello di svelare e mostrare la realtà. Perchè c’è tutta questa resistenza a nominare la violenza maschile? La risposta la deve trovare dentro di sé, chi è chiamato a raccontarla e la rimuove.»