La notizia è arrivata quando qui in Italia erano le 2 del mattino; ma erano le 9 di sera in Minnesota, dove Trump stava tenendo un comizio. Rimarrà nei prossimi giorni l’immagine un po’ surreale del presidente che, ironia della sorte, sciorina queste parole: «Il prossimo presidente avrà da nominare uno, due, tre o quattro giudici della Corte Suprema. Io ne ho già nominati due. A molti presidenti capita di non nominarne nemmeno uno, perché tendono ad essere nominati a lungo e quindi a rimanere in carica per molto tempo…». Sembra la scena di un film: il presidente parla proprio di questo, la folla cerca di dargli la notizia che la gente ha già ma lui no, gliela gridano dalle tribune ma lui non li sente, non li può sentire, prosegue imperterrito: «Ma al prossimo presidente spetterà di nominarne da uno a quattro. Il che fa una differenza enorme quando parliamo di diritto alla vita, del secondo emendamento, di cose così importanti per voi…». E intanto chi sta seguendo da casa vede Trump dire queste cose mentre in basso sullo schermo campeggia la notizia: “La giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg è morta a 87 anni”.

Grande giurista, pioniera dei diritti delle donne, Ginsburg era stata nominata da Bill Clinton nel 1993, ed è stata per più di un quarto di secolo la leader della “fazione di sinistra” nella Corte Suprema. È stata anche la protagonista di tutte le speculazioni sui possibili cambiamenti di composizione nella Corte negli ultimi dieci anni, da quando, nel febbraio del 2009, poche settimane dopo l’inserimento di Barack Obama alla Casa Bianca, giunse la notizia del suo improvviso ricovero in ospedale per un cancro al pancreas . Nelle foto di gruppo della Corte Suprema appariva sempre più minuscola, nemmeno le falde della toga nera riuscivano a riempire la sedia. Ma lei per oltre dieci anni quella sedia non l’ha liberata, non era mai il momento giusto.

George W. Bush aveva sostituito con due giudici “di destra” non solo il presidente della Corte, il mitico William Rehnquist (al posto del quale aveva nominato il texano John Roberts), ma anche Sandra Day O’Connor, che era stata la prima donna a far parte della Corte e, seguendo un orientamento liberal-moderato, aveva fatto da ago della bilancia tra membri progressisti e conservatori della Corte in molte decisioni delicate: nominato al suo posto l’italoamericano Samuel Alito, un conservatore duro e puro, Bush aveva spostato lievemente a destra gli equilibri della corte. Contro tutti i pronostici, a Obama non toccò in sorte di sostituire Ginsburg, la quale sino a ieri è rimasta saldamente al suo posto alla faccia di chi le voleva male, bensì di porre al suo fianco due colleghe donne: Sonya Sotomayor, primo giudice latinoamericano nella storia della Corte Suprema, chiamata da Obama a rimpiazzare il “centrista” David Souter nel maggio del 2009, ed Elena Kagan, nominata nel 2010. In pratica, se Bush si era a sua volta limitato a sostituire un centrista con un conservatore, oltre a rimpiazzare un conservatore con un altro conservatore, Obama si era simmetricamente limitato a sostituire un centrista con un liberal, oltre a rimpiazzare un liberal con un altro liberal. A quel punto gli equilibri politici all’interno della Corte si riducevano ad uno schema 4 + 4 + 1: quattro conservatori, quattro progressisti ed un residuo solitario centrista. In quel contesto, se anche Obama fosse stato chiamato a sostituire Ginsburg, avrebbe potuto tutt’al più sostituire per la terza volta un giudice di sinistra con un altro del medesimo colore politico, quindi non sarebbe cambiato nulla.

E invece nel febbraio del 2016, quando ormai Obama stava per entrare nel suo “semestre bianco”, Antonin Scalia, il leader della “fazione di destra” della Corte, morì nel sonno mentre si riposava da una battuta di caccia in Texas, e nulla fu più come prima. I repubblicani si precipitarono a diffidare Obama dal violare la consuetudine stando alla quale un presidente uscente durante gli ultimi mesi del suo mandato non nomina nuovi giudici costituzionali, ma passa la mano al suo successore; Obama invece dichiarò immediatamente che, fine mandato o no, il successore di Scalia l’avrebbe nominato lui. Se ci fosse riuscito, avrebbe potuto neutralizzare preventivamente l’effetto politico della probabile nomina del successore della Ginsburg qualora il suo successore alla Casa Bianca fosse stato un Repubblicano, o addirittura assicurare dopo tanto tempo una maggioranza di sinistra nella Corte se a succedergli fosse stato un Democratico. Ma la nomina necessita della ratifica da parte del Senato, dove già allora erano in maggioranza i repubblicani: Obama nominò il proprio concittadino Merrick Garland, ma al Senato fu muro contro muro, i repubblicani fecero ostruzionismo anche solo contro la semplice calendarizzazione delle audizioni per la conferma, e la nomina si arenò fino alle elezioni. I repubblicani riuscirono così a mantenere vacante quel seggio, che poi fu Trump a colmare appena insediatosi, con la nomina del conservatore Neil Gorsuch. Poi, nel 2018 è sopraggiunto l’abbandono da parte del giudice Kennedy, l’ultimo dei “centristi”; e al suo posto Trump ha nominato il conservatore Brett Kavanaugh, la cui conferma è stata strappata con le unghie e con i denti nonostante una accusa di molestie sessuali con la quale l’opposizione democratica ha tentato strenuamente di farla saltare. 

Fino a poche ore fa, quindi, la Corte era composta da quattro giudici di sinistra e cinque di destra; ma la marcata indipendenza, per non dire imprevedibilità, del presidente Roberts manteneva ancora relativamente aperti i giochi in occasione delle decisioni più delicate. La scomparsa di Ginsburg proprio adesso, a meno di due mesi dal voto, rappresenta un corto circuito micidiale. Sul piano prettamente tecnico i tempi minimi per la sostituzione di Ginsburg prima delle elezioni ci sarebbero (esistono precedenti di giudici nominati e confermati in meno di due mesi); senza contare che “questo” presidente e “questo” Senato restano poi in carica ad interim fino a gennaio. Ma sul piano politico è evidente che la nomina – se Trump la azzarderà ora, come quasi certamente farà – sarà solo a uso e consumo della campagna elettorale. Se ad esempio nominasse una donna (circola da tempo il nome di Amy Coney Barrett), sarebbe soprattutto per sfidare i democratici a fare le barricate contro una donna, con tutto ciò che ne consegue in termini mediatici e di immagine. Da questo punto di vista, nominare una donna sarebbe una win win strategy per il presidente.

I repubblicani – che al Senato hanno la maggioranza solo per tre seggi, e sanno che a novembre potrebbero anche perderla, a prescindere dalle presidenziali – in queste ore si sono già rimangiati tutti gli argomenti che quattro anni fa avevano usato per contestare la legittimità del tentativo di Obama di nominare un giudice durante gli ultimi mesi del proprio mandato (Lindsey Graham della South Carolina, che presiede la Commissione Giustizia del Senato, e la cui rielezione appare a rischio stando agli ultimi sondaggi, aveva cominciato a mettere la mani avanti a maggio.

E con simmetrico opportunismo, i democratici si sono precipitati a gettare a mare tutti gli argomenti che quattro anni fa, quando alla Casa Bianca sedeva Obama, avevano addotto per giustificare il diritto del presidente di esercitare il proprio potere di nomina anche sotto elezioni. 

Se non fosse per la pandemia (e per la conseguente crisi economica), la campagna elettorale presidenziale da qui in poi non farebbe che ruotare ossessivamente attorno a questa nomina. Cosa che probabilmente in qualche misura comunque accadrà, persino in questo contesto.

(Nella foto in evidenza la Corte Suprema al completo. Ruth Bader Ginsburg è seduta nella fila in primo piano partendo da destra. L’immagine proviene dal sito della Corte Suprema www.supremecourt.gov)