15 maggio 1948: l’anniversario della Nakba palestinese che continua ancora oggi
77 anni fa, avveniva la Nakba, l'esodo di massa del popolo palestinese cacciato con la violenza dalla propria terra dopo la creazione dello Stato d'Israele.

77 anni fa, avveniva la Nakba, l'esodo di massa del popolo palestinese cacciato con la violenza dalla propria terra dopo la creazione dello Stato d'Israele.
Il 15 maggio, il giorno successivo alla proclamazione ufficiale dello Stato d’Israele, ha avuto inizio la tragedia per il popolo palestinese, conosciuta come la Nakba, che in arabo significa proprio “catastrofe”. La Nakba rappresenta l’esodo forzato di quasi 800.000 palestinesi, oltre l’80% della popolazione dell’epoca, costretti a lasciare le proprie case e quella terra affacciata sul Mediterraneo, un territorio ricco di storia e cultura, compreso tra il fiume Giordano e il mare.
La Nakba non durò un solo giorno; l’enorme numero di persone costrette a lasciare la propria terra si protrasse per mesi. Questo accadde perché molti palestinesi non volevano abbandonare le loro case, la terra che coltivavano, la loro vita, ma furono costretti a farlo dopo mesi di saccheggi e dopo aver assistito alla distruzione dei loro villaggi con carri armati e incendi. Una Nakba che continua da 77 anni.
Oggi, 15 maggio 2025, è il 77º anniversario della Nakba, ma oggi, come nel 1948, le cose non sono cambiate, perché continuano le violenze da parte dell’esercito israeliano. Violenze non contro un altro esercito, né contro altri militari che combattono nella stessa guerra, ma contro una popolazione civile inerme, una popolazione sfinita da un genocidio in corso da oltre un anno e mezzo, con bombe a grappolo e missili lanciati su scuole e ospedali, a volte con la scusa che questi siti possano rappresentare nascondigli o scudi per Hamas, ma che il più delle volte sono “errori” volontari per continuare a stremare una popolazione, rendendo insicuro qualsiasi luogo e costringendo le persone, anche quelle più riluttanti, ad abbandonare la propria terra.
Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, oltre a violenze, missili e bombardamenti, sta impiegando un altro metodo per costringere i palestinesi a lasciare le loro terre: il blocco del cibo, delle medicine e degli aiuti umanitari. Da ormai due mesi, dall’ultimo cessate il fuoco ripetutamente violato dalle forze israeliane, questi beni essenziali non entrano nella Striscia di Gaza.
Una costante violazione dei diritti umani da parte di Israele, che prosegue la Nakba dal 15 maggio 1948 fino a oggi. Un esodo considerato necessario dall’ONU e dai Paesi Membri che avevano lavorato e votato per la ripartizione della Palestina, accompagnato dalla promessa mai mantenuta di un possibile ritorno quando la situazione si fosse normalizzata. Un ritorno possibile solo dopo che il popolo ebraico si fosse insediato in quella nuova terra, una terra promessa duemila anni prima e che l’Europa, uscita devastata dalla Seconda Guerra Mondiale, cercava di donare per placare la propria coscienza, colpevole di non aver impedito il massacro di sei milioni di ebrei, perpetrato nel cuore dell’Europa dai nazisti. Un dono a spese di milioni di palestinesi, costretti durante la Nakba del maggio 1948 a partire su camion, navi e lunghe file a piedi verso i Paesi arabi confinanti o a rifugiarsi in campi profughi situati nelle zone di confine, come quello di Jenin.
La Nakba, quindi, non è mai terminata per il popolo palestinese. È stata un’esperienza quotidiana, anno dopo anno, mentre venivano sottratte loro case e terre a causa dell’avanzata dei coloni, invasione silenziosa portata avanti dallo Stato d’Israele in quasi 80 anni di dominio. Questi atti di forza mirano a conquistare piccoli villaggi palestinesi, espellendo i loro abitanti per favorire l’insediamento degli israeliani, i cosiddetti coloni.
Azioni eseguite quasi sottotraccia, quasi all’insaputa dell’opinione pubblica mondiale, anche se i potenti del mondo ne erano pienamente consapevoli. Azioni compiute silenziosamente tra quelle invece più assordanti, fatte di bombe e missili come l’Operazione Piombo Fuso del 2008, come quella in corso dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Un attacco che ha diviso l’opinione pubblica mondiale tra chi lo definisce un atto terroristico di ingiustificata violenza e chi invece la definisce una inevitabile forma di resistenza verso un oppressore, Israele, e 77 anni di violenze, di morti e di un annientamento fisico e culturale di un’intera popolazione.
Durante gli attacchi del 7 ottobre persero la vita 1.200 israeliani e rimasero ferite 5.430 persone. Ogni vita è preziosa, ma è fondamentale considerare la drammatica sproporzione rispetto ai quasi 50.000 palestinesi uccisi, tra cui circa 10.000 bambini, dall’inizio dell’ultimo conflitto scatenato dopo la strage del 7 ottobre. Numeri che continuano ad aumentare, giorno dopo giorno e che raccontano anche una precisa volontà politica, militare e scientifica di cancellare un intero popolo dalla faccia della Terra. Una volontà con un nome ben definito: genocidio.
E poiché le parole, come i numeri, hanno un peso significativo, è essenziale riconoscere che ciò che sta avvenendo in questi anni nella Striscia di Gaza rappresenta il genocidio del popolo palestinese, anticipato dalla Nakba del 1948, una catastrofe che ha segnato l’inizio di un dramma iniziato 77 anni fa, o forse anche prima.
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