Il 26 novembre del 2010, Yara Gambirasio, una ragazzina di tredici anni esce di casa, per andare al campo sportivo, e da lì non tornerà più. Il corpo verrà ritrovato poi il 26 febbraio del 2011.

Il caso colpirà immediatamente l’opinione pubblica, essendo ancora vivo nelle coscienze il delitto di Avetrana, di pochi mesi prima (il 26 agosto, ancora un 26) dove aveva perso la vita la quindicenne Sarah Scazzi.

La foto di Yara, con il suo sorriso innocente, sarà l’immagine che ovunque scandirà quei giorni e quei mesi. Inoltre, da quel caso, ebbe inizio una tra le indagini scientifiche più massicce e costose, che mai ebbe precedenti in Italia. Ventimila campioni di DNA vennero raccolti tra gli abitanti della zona.

A questo delitto torna Giuseppe Genna con il suo “Yara. Il true crime”, edito da Bompiani.

Oltre il delitto

Ma chi conosce Giuseppe Genna sa che quello che andrà a leggere non sarà la ricostruzione di un agghiacciante fatto di cronaca, ma sarà qualcosa di più e sarà qualcosa di oltre.

Prima di tutto perché a scrive sarà “lo scrittore sbagliato… la persona sbagliata nel momento sbagliato nel luogo sbagliato, nato nel giorno sbagliato dell’anno sbagliato al secondo sbagliato”, ma sbagliato sarà secondo le nostre aspettative. Di chi prenderà quel libro pensando di leggere una ricostruzione “true crime” e non invece di leggere “IL true crime”.

Perché il caso di Yara sarà un caso assoluto. Attraverso questa vicenda si incarnano tutte le vicende.

Giuseppe Genna

Se nel suo “Hitler”, sempre edito da Bompiani, Giuseppe Genna aveva demitizzato il personaggio Hitler, rivelandone l’assoluta stupidità, la stupidità del male, smascherando Hitler come vuoto, come non persona; nei confronti di Yara Genna rivelerà il pieno, il dovunque, il sempre (“Yara a prescindere”; “Da questo rapimento non ci dissequestreremo mai”).

La santificazione avviene a partire già dal titolo della prima parte: “Passione e deposizione di Yara”.

Yara è creatura fisica, reale, storica, ma è anche creatura letteraria, immateriale, simbolica: “Yara, i tredici anni la minacciano… La guardiamo noi della razza di chi rimane a terra” (dove l’omaggio a Montale è una dichiarazione d’intenti. Manifesto poetico).

L’elevazione mistica verrà ostentata in quella lettera “Y”, che diventerà ossessione e mantra a serpeggiare lungo tutto il libro (“Da Nassiriya a Yara. Le Y proliferano e connotano il momento storico”).

Prima di tutto la voce narrante: un io, che è testimone e quindi – etimologicamente – “martire”. E poi un “io” che diventa un “noi”. Il noi dei colleghi cronisti, il noi degli inquirenti, il noi degli spettatori avidi, alla ricerca di colpevoli e assoluzioni (“Non siamo mai stati così italiani”).

E poi una lingua, “una lingua di sabbia”, una lingua che gira su se stessa (“Chi l’ha visto Chi l’ha visto?”, “Chi testimonia per il testimone”, “Il fatto di non trovare Yara non è un fatto”).

Una vicenda dai contorni assurdi

E poi la vicenda. Una vicenda assurda. Prima il sospetto su Mohammed Fikri (“Marocchiny fuori da Bergamo”), una cabala perversa di false traduzioni, fonemi che diventano capi d’accusa, lingue che non si capiscono, traduttori traditori (“Fikri tradotto in qualsiasi modo”). Poi l’indagine vera e propria, quella che vedrà protagonisti il DNA, nuclei e mitocondri (“La genetica ci porta al Medioevo. La tecnologia più all’avanguardia ci sposta in una materia oscura e arcaica”). La storia di Ignoto 1, il figlio illegittimo. L’assassino inafferrabile sotto il naso di tutti.

E poi le vittime che orbitano satellitari attorno a Yara e che la luce di Yara nasconderà: l’indiana Sarbjit, il domenicano Eddy Castillo. Ma soprattutto, quello che Genna va a raccontare è il nostro rapporto spettacolare con il crimine, la nostra fame di delitti, il nostro bisogno di sangue e vittime (“Un paesino arrampicato sui monti della Val del Riso può essere decisivo nella mappa della storia italiana. Dello spettacolo italiano”). Perché “l’Italia non elabora il lutto, lo innesca”. E la morte non è la morte fisica di una vittima innocente, ma è la morte della storia, della notizia, dello show (“prima che la fine sia definitiva e perfino il cadavere muoia”).

E non a caso, Genna, che nel suo Dies Irae, aveva fatto il nucleo simbolico e mitopoietico di tutta una storia a partire dall’episodio di Alfredino Rampino, il bimbo caduto nel pozzo artesiano e nelle sue drammatiche ultime ore, esibite a reti unificate, trova tra Yara e Alfredino il punto di contatto: “Convertiamo sessanto ore in tre mesi. Mutiamo il nome Alfredino nel nome di Yara… Diciamoci la verità. Facciamo ammenda. Confessiamo l’inconfessabile. Lo aspettavamo da anni, tutto questo. L’attesa mistica, tutta italiana, vantava un’oscenità a priori, tutta italiana”.

Un circo multimediale

Se spettacolo deve essere, allora deve esserlo fino in fondo: “è un circo multimediale allestito in pura malafede, basato sulle tremule fondamenta di un goffo squarta -e-fuggi”.

Ma poi c’è l’empatia. Vivissima. Scorticata. Dell’autore che partecipa a questo dramma sacro, a questa rappresentazione con figlie, padri e madri d’archetipo.

Per chi ama Giuseppe Genna, questo secondo me è un grande ritorno, di un autore che forse si era un po’ perso in questi ultimi anni e che ora ritrova e gioca le sue carte migliori. Per chi non lo conosce, è la buona occasione per farlo con una tra le sue opere più fresche, equilibrate e accessibili. Il libro è scorrevole e al tempo stesso profondo. È uno sguardo. L’autopsia di una società. Sopra un lettino freddo. Sovrailluminato.

“Qui ci si alimenta di ombre. L’ombra non nutre”.

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