Sogno o son desto? Che sia l’effetto dell’ennesimo anniversario o sta succedendo qualcosa di imprevedibile? Don Lisander riportato agli onori degli altari? Ma è il solito fenomeno da ricondurre a un cambio di “atmosfera” politica, come spesso succede in Italia, o è un ritorno autentico e sinceramente vissuto? Sento parlar bene non solo del Manzoni dei saggi poetici e storici, ma perfino del Poeta degli Inni Sacri. Persino dell’Autore dei Promessi Sposi…. Dove sono finiti tutti coloro che dal secondo Dopo Guerra in poi hanno deriso il rossore di Lucia, il confidente ingegno dei baldi giovani e le liete voglie sante che dovrebbero adornare la canizie? Dove sono i professori che preferivano Mackie Messer e lo Zanni a Don Rodrigo e al povero Renzo? Zitti, momentaneamente all’angolo; pentiti: Collaboratori di Giustizia Critica di un nuovo corso pedagogico che copre di ridicolo chi parla male di Manzoni o belve in letargo, pronte a risvegliarsi appena ri-soffi il vento di una visione sinistramente antiestetica, politicamente anti-intimistica e teologicamente realista? Chissà, forse sono estinti, anch’essi consumati dalle ineludibili liturgie del tecno-capitalismo dominato dai cellulari pervasivi e totalizzanti. Potrebbero essere solo assopiti, nel letargo generale della dimensione letteraria.

Sta di fatto che assistiamo anche per il Gran Lombardo a quanto accaduto per Dante. Adesso tutti ne parlano bene. Di Dante, appena già a due anni di distanza dal settimo centenario della morte si occupano solo accaniti appassionati provinciali, indubbiamente sinceri nella loro devozione, ma solitari e marginali. Dove sono le rabescate zimarre e i raglianti oricalchi che per un anno intero hanno spiegato, a chi Dante lo ha studiato e amato visceralmente da sempre, quanto sia più affascinante il Paradiso dell’Inferno? E proclamato persino che il Purgatorio è il vero vertice del Sacro Poema? A noi che negli Anni di Piombo e dell’ubriacatura politica sessantottina non abbiamo mai abbandonato né gli studi danteschi, né l’analisi dei testi manzoniani, sembrava di essere soli nella siderale, diffusa antipatia per i due giganti che nella fede cristallina della loro esperienza interiore avevano costruito maestose costruzioni estetiche di fronte alle quali siamo tutti dei nani.

Ma la scuola di Bologna prima, pur limitandosi a notomizzare le strutture testuali, e l’eco lunghissima delle parole di Gadda, di recente rispolverate da una Nouvelle Vague critica, in polemica con uno dei massimi interpreti della disistima manzoniana, hanno restituito il Manzoni a una lettura meno ideologica, più attenta ai valori profondi di un pensiero e di un’opera di sorprendente coerenza, alle vicende di un’ani­ma tormentata e ribelle. Gli scritti teorici di Manzoni delineano una visione della letteratura, della storia e della lingua che consacrano una rara simmetria fra il kunstwollen e il kunst machen, ovvero fra l’intentio operis e l’opus confectum, fra il pensiero poetico e la sua realizzazione.

Di Manzoni si ricorda abitualmente la critica alla poetica di Aristotele e la demolizione delle tre unità tragiche attribuite dai trattatisti rinascimentali e dai loro eredi classicisti alla Poetica di Aristotele: unità di tempo, di luogo e d’azione. Si ricorda l’interesse e la cura per i dettagli storici. Si parla della sua visione educativa della letteratura. Raramente si pone in evidenza che, nel momento in cui egli abbandona il classicismo di maniera, quello accademico e gelido imposto dal formalismo del Seicento ed ereditato dallo schematismo settecentesco, egli riconfigura su un piano moderno e assolutamente nuovo il rapporto che Aristotele istituiva fra Storia e Poesia.

Dice Aristotele nella Poetica che compito della storia è raccontare i fatti così come sono avvenuti. Mentre compito della poesia è ricostruire i fatti come potrebbero accadere. Per questa via Manzoni entra negli interstizi della storia, applica la lente poetica alle vicende “accadute” e ingrandisce ciò che legittimamente avrebbe potuto caratterizzare il vissuto di coloro che quella storia, anche inconsapevolmente hanno sperimentato. Questa straordinaria concezione fa di Manzoni il fulcro del Romanticismo italiano: grazie a lui anche le “gente meccaniche e di piccol affare” quelli che la storia la subiscono e non la fanno, diventano protagonisti. Manzoni entra nel tempio del consunto accademismo critico del suo tempo e ne rovescia i tavoli, ne distrugge i presupposti e caccia dal tempio i geni compresi di un’epoca ormai finita.

Nel cuore di una contadina della montagna lecchese, nelle inquietudini di un nobile criminale bandito da Milano, nella sublime, inarrivabile tempra umana di un cardinale e nelle inquiete paure di un prete di campagna e di innumerevoli altri personaggi “maggiori e minori” si va costruendo un castello narrativo di inaudita complessità. La trama e l’intreccio, i profili dei protagonisti, dei deuteragonisti, perfino delle comparse, l’ambientazione storica, le vicende delle folle e dei singoli, i piccoli rappresentanti di un bene ingenuo e nativo, i grandi falsificatori di ogni cosa e di ogni sentimento simulatori e dissimulatori, inamidati colletti e umili gilet da lavoro si fondono e armonizzano in un sistema di cristallina struttura che rappresenta una visione del mondo storicamente affidabile e affascinante poeticamente.

Su tutto poi si distende l’anima ironicamente affettuosa ed eticamente concentrata del­l’autore, che in ogni angolo e interstizio penetra con la scintillante lucidità di una lingua, ancor oggi a distanza di quasi due secoli, in grado di conquistare il lettore con affascinante chiarezza e incisiva efficacia. Il problema è restituire questo gioiello alla scuola, il tritatutto nel quale anche le cose più grandi, anche le opere più belle rischiano di usurarsi come i cavi di rame per la corrente continua. Forse proprio qui sta il problema: una ossessiva continuità, fattasi routine è riuscita a creare tra gli studenti risentiti nemici anche di Omero e di Pindaro, di Dante e di Petrarca, di Foscolo e di Manzoni.

Complici le ideologie distruttive degli anni Sessanta e Settanta, le idee balzane degli ispettori ministeriali degli anni Novanta, le distrazioni elettroniche di questa nostra età confusa ed incerta, è accaduto che opere che sono il fondamento della civiltà (non solo occidentale) sono state vissute come obbligo e costrizione, quindi come irritazione e fastidio. Ma nulla mi risulta più superficialmente patetico della sciocca sicumera di coloro che, vantandosi di aver odiato da studenti Dante, Foscolo e Manzoni, ora con sorriso sulle labbra e la certezza di essere dei geni (in gioventù colpevolmente incompresi), affermano che “dopo e nonostante la scuola” hanno scoperto la bellezza della Divina Commedia (perfino del Purgatorio!), la profondità di Foscolo (deriso in passato perfino dai presidi) e l’insuperabile profondità di Manzoni (detestato per la sua fede cattolica).

Il dolore di chi osserva il paesaggio odierno è doppio: da un lato per i docenti che a tempo debito non sono stati in grado di comunicare la bellezza delle opere di questi autori (forse perché nemmeno loro le avevano in realtà pienamente comprese), dall’altro per la illegittima delegittimazione della scuola, della fatica che essa richiede per uscire dalla banalità del quotidiano a fronte di un grido comune di tutti coloro che ormai sistematicamente alla prima emergenza sociale e culturale invocano l’intervento della scuola.

Bene. Finiamola una volta per tutte, ammettiamo che le opere di alta caratura poetica e letteraria non si leggono come i fumetti e rimettiamo al loro posto i grandi, consapevoli che non ne nascono di quel livello tutti i giorni e che, se ne abbiamo in erba tra noi, questi devono aver la stessa umiltà e la stessa capacità di lavoro di quelli che per la letteratura non hanno speso qualche mese, ma hanno dato la vita. Una scuola che si fa facile acquiescenza di consenso non libera e non educa. Tra le pieghe degli scritti di Manzoni queste idee si trovano come i funghi nel bosco dopo la pioggia. Ma bisogna non aver paura di andare nel bosco.

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