Si apre finalmente la primavera e, nel weekend immediatamente successivo al Dantedì (il giorno in cui idealmente Dante si ritrovò nella “selva oscura”, il 25 marzo 1300) ritroviamo Alberto Rizzi in scena questo weekend al teatro Modus, Piazza Orti di Spagna – zona San Zeno – sabato 26 alle 21 e domenica 27 alle 18 con Io, Dante e la Vacca, una produzione di Ippogrifo Produzioni. Non possiamo allora mancare l’occasione per chiacchierare col l’attore, regista, autore teatrale sulla sua rappresentazione e, in generale, allargare lo sguardo su quello che è l’attuale momento del mondo dello spettacolo.

Dante, una mucca rossa e un allevatore. L’alto, il basso e il sintetico insieme. Rizzi, qual è l’intento di questo spettacolo?

«Il pubblico si deve aspettare di emozionarsi, divertirsi e di innamorarsi – o almeno questa è la mia aspettativa quando vado a teatro o al cinema – dove con divertimento intendo un mezzo e non un fine. Lo spettacolo in verità è nato dalla mia volontà di fare un omaggio a Dante nel settecentesimo anno dalla morte: una scelta difficile nel mare dell’offerta di rappresentazioni, letture o eventi sullo stesso tema, così ho puntato a qualcosa di assolutamente personale, immaginando che persino le vacche si sappiano emozionare di fronte alla bellezza. Quindi, uno spettacolo che parla di cultura e letteratura ma col sorriso, con quell’ironia che cerco sempre di inserire nei miei lavori anche qui non come fine ma come mezzo per veicolare dei messaggi. Per certi versi è la mia cifra stilistica, come si può constatare in SIC TRANSIT GLORIA MUNDI, la Papessa: non è obbligatorio essere cupi e pesanti quando si trattano vicende non banali.»

Come sta il mondo del teatro, ora che pian piano si riapre?

«Dal punto di vista della programmazione è un bel problema: la pandemia ha scombinato tutti i piani e fino al 2023-24 ci sarà da attendere il recupero di quanto accantonato per l’emergenza. E questo incide su tutta la catena della produzione dei nuovi spettacoli, che si costruiscono e programmano con almeno 2 anni di anticipo e che, per andare in scena, devono affrontare un periodo di preparazione inserito in una stagionalità che oggi risulta problematica.»

Il riscontro pubblico?

Alberto Rizzi

«Sta andando meglio del previsto, vediamo che la gente sta tornando prepotentemente a teatro e i numeri sono confortati. Ieri, per dire, allo spettacolo di Natalino Balasso al Teatro Salieri di Legnago c’era il tutto esaurito a fronte di ben 630 posti. Penso allora che ci sia una voglia di normalità e che il pubblico abbia recuperato quel senso di tranquillità che accende il bisogno di cultura. Il vero nodo, piuttosto, è riuscire a recuperare quel gruppo di professionisti che lavorava dietro le quinte (tecnici, elettricisti, fonici…) che dopo un anno e mezzo di pandemia ha dovuto rassegnarsi a cambiare lavoro. Io però sono molto molto fiducioso che si possa ricostruire quel tessuto sociale che ora si è sfilacciato.»

Meglio del cinema sembrerebbe…

«Sicuramente vedo meglio il teatro del piccolo cinema indipendente che non riesce a decollare oltre quel piccolo zoccolo duro di appassionati che ora sembra sparito dai radar, anche se non va sottovalutato che i numeri nelle sale in Italia, considerato il clima, cominciano a risalire a Pasqua. Aspettiamo il prossimo autunno prima di fare i conti, certo è il Covid ha sottratto spazio al cinema a favore delle piattaforme e il ripristino della situazione pre-pandemia non sembra immediato. Però non è vero che il cinema non attira più: le grandi produzioni americane continuano a fare mastodontici incassi. Sono fiducioso che l’avvento delle nuove leggi che intendono regolamentare le finestre tra l’uscita al cinema e sulle piattaforme riporterà la gente nelle sale, visto che l’esperienza cinema rimane non paragonabile a quella domestica.»

Non dovrebbero più accadere situazioni che hanno – a detta della produzione – penalizzato film come Matrix 4.

«Lì, se non ricordo male sono stati fatti dei gran pasticci in questo senso; la questione è molto complicata ma, semplificando, tutto si risolve se la gente torna al cinema. Non si può pensare che le piattaforme sostituiscano le case di produzione cinematografiche; non si possono fare film da 100 milioni di dollari pagando 30 € al mese; l’on demand non attira il pubblico medio, che ritiene assolto il suo obbligo con l’abbonamento. Ci sono però soluzioni interessanti come in Francia, dove fanno abbonamenti di 15€ al mese per l’ingresso al cinema. Il problema è un altro: ritengono costoso persino un biglietto a 5 € (se ci vai il mercoledì) o gli abbonamenti al cineforum a 3€, però non battono ciglio per uno spritz a 6 euro. Va ricostruita una reale consapevolezza del servizio che viene offerto e che il cinema rimane alla fine dei conti quello più economico; eppure, viene ancora percepito come costoso pensando che Netflix sia la stessa cosa in termini di godimento dell’esperienza e di offerta, salvo poi scoprire che nelle programmazioni dei cinema passa anche molto altro.»

Non viene percepito forse lo sforzo dell’artista, che è visibile solo nel momento in cui si esibisce…

«Se tu vai in vacanza in un villaggio turistico e ti diverti non significa che gli animatori non stiano lavorando per farti divertire, anzi, e lo si percepisce. Però, magari, la stessa persona pensa che l’artista lavori un’ora al giorno e quindi che il suo, tutto sommato, non sia un lavoro. Questa è una cosa veramente italiana e che non ho riscontrato altrove, ovvero considerare il lavoro culturale non un lavoro ma una sorta di volontariato autoappagante da pagarsi, magari, solo in visibilità.»

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C’è voglia di sperimentare o si va sull’usato sicuro?

«Credo che il teatro di ricerca abbia fatto un sacco di danni perché ha contribuito a costruire un’idea di un’arte autoreferenziale indifferente al pubblico, lasciando intendere che ciò che non rientra nella sperimentazione sia cattivo teatro. Lo stesso vale per il teatro classico, che a mio avviso diventa cattivo teatro quando si intestardisce a mettere in scena le solite cose viste e riviste. Per me il teatro buono, onesto è quello che ha ancora qualcosa da dire di vero. Rimettere in scena l’Amleto per l’ennesima volta solo per far vedere quanto è bravo a recitare il protagonista non ha senso; così come non ne ha distruggere ogni logica di trama e costruzione in onore di una astratta sperimentazione. Ci vuole una via di mezzo che non dimentichi che si lavora per il pubblico.»

Dalla provincia sei arrivato a Roma per un film con una grande casa cinematografica. Com’è stata la realtà della situazione cinematografica della capitale rispetto alle tue aspettative?

«Sicuramente Roma rimane il centro per quanto riguarda le maestranze e i tecnici. Anche qui però non possiamo ignorare l’impatto delle piattaforme che ha mostrato molte valide realtà oltre Roma. Io stesso, nel mio film [Si muore solo da vivi, N.d.A.], ho descritto la provincia emiliana, cosa che forse non sarebbe stato possibile in questi termini anni fa, a cavallo tra gli anni ’90 e il Duemila. Roma però rimane elemento certo attrattivo e per certo versi ripropone lo schema della Roma imperiale, che attirava e adottava artisti delle provincie del calibro di Catullo, Virgilio, Seneca; lo stesso accade anche oggi, con grandi registi che lavorano nella capitale ma che sono nativi di altre zone: per citare i primi che mi vengono in mente, il siciliano Roberto Andò, il piacentino Marco Bellocchio, il napoletano Paolo Sorrentino…»

Come ti sembra stia il cinema italiano? Stiamo uscendo dalla logica della coppia chiusa in una stanza che litiga istericamente per due ore?

«È un momento interessantissimo, nel quale il cinema italiano sta prendendo strade nuove. L’arrivo delle piattaforme ha scombussolato lo scenario ed ora è ripartito l’horror, abbiamo fatto un film su un personaggio del fumetto italiano (Diabolik)…»

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Ci sono però operazioni criticate a priori come il nuovo Altrimenti ci arrabbiamo

«Tutte le volte che apro i commenti sul trailer o su qualche foto leggo commenti negativi a priori. Ma consideriamo dei fatti: abbiamo un produttore che ha avuto il coraggio di non produrre il solito film di due in una stanza, depressi, dove lui fa il metalmeccanico e lei fa la maestra d’asilo e di puntare invece su un reboot, operazione impensabile anche solo 10 anni fa. Significa che stiamo uscendo da una logica artigianale e avvicinandoci al modello americano di cinema industriale. E poi, entrando nel merito, non esageriamo: Altrimenti ci arrabbiamo è bello perché è un’opera ultrapop, certo non è né la Divina Commedia né 8½ di Fellini e un suo reboot non può essere un delitto di lesa maestà.»

C’è qualcosa che ti ha colpito ultimamente e che consiglieresti di vedere?

«Assolutamente sì. Recentemente sono usciti ottimi film italiani: La mano di Dio di Sorrentino mi sembra meraviglioso, Qui rido io di Mario Martone per me è un capolavoro assoluto e anche il film di Bellocchio – pur non amando i documentari – mi ha colpito. Mi è piaciuto molto The Batman ma c’è ancora molto da vedere al cinema; per esempio, sto riscoprendo il restauro dei film di Pasolini, così attuali e meravigliosi. insomma, andiamo al cinema, andiamo al teatro, magari a vedere Io, Dante e la vacca

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