Era il 1933 quando alcune giovani donne milanesi, la maggior parte tra i 15 e i 20 anni, decisero di fondare la prima squadra italiana di calcio femminile.

«Queste ragazze sapevano bene qual era la morale dell’epoca e cosa voleva dire vivere in un regime totalitario e praticare il calcio, sport appannaggio dei maschi», afferma Federica Seneghini, giornalista e autrice del libro che racconta la loro storia Giovinette – Le calciatrici che sfidarono il Duce (Ed. Solferino Libri, 2020). «Il regime fascista in un primo momento non sa cosa dire rispetto a questa iniziativa, ma ci penseranno i giornalisti legati al potere ad attaccarle con articoli pieni di pregiudizi», continua.

“Le giovinette” non si fecero intimidire e l’11 giugno del 1933, meno di un anno dopo l’avvio della squadra, a Milano, in un campo vicino a viale Melchiorre Gioia, si giocò la prima partita di calcio femminile aperta al pubblico.

Federica Seneghini, autrice del libro

«Fu la prima di due partite che le ragazze giocarono tra di loro», racconta la Seneghini. «Al bordo del campo c’erano circa mille persone tra curiosi, appassionati, parenti, amici. Sostenevano la squadra anche alcuni famosi calciatori dell’epoca come Gianpiero Combi, portiere della Juventus e della nazionale italiana. Un sostegno indiretto», prosegue, «arrivò anche dai giocatori dell’Ambrosiana-Inter, che coi loro colleghi cecoslovacchi dello Sparta Praga andarono a vederle giocare in occasione della seconda e ultima partita pubblica, giocata a Milano nel luglio 1933».

Pur di giocare e di non andare contro la morale dell’epoca si erano date anche delle regole sul campo molto stringenti.

«Scesero in campo con delle gonnellone invece dei classici pantaloncini», ricorda Federica Seneghini, «perché avrebbero dettato scandalo nel far vedere le gambe al pubblico. Si dettero anche delle regole di gioco diverse da quelle del calcio maschile.  Innanzitutto, la palla era più piccola e leggera, i tempi non erano di 45 minuti ma bensì di 20. I passaggi poi dovevano essere solo rasoterra. In porta fu deciso di mettere dei ragazzi presi dalle giovanili dell’Ambrosiana-Inter perché il ruolo del portiere era considerato il più a rischio. I medici dell’epoca pensavano che una pallonata al basso ventre avrebbe potuto mettere a rischio la fecondità di queste ragazze e questo non era tollerato dal regime fascista perché far figli era quasi un obbligo per le donne».

Tratta da “Il Calcio Illustrato”

Nel massimo splendore il movimento arrivò ad avere sino a 50 calciatrici, ma la storia fu brevissima.

Le ragazze giocarono ancora per qualche mese e poi furono costrette a smettere nell’ottobre del 1933.

L’avvento di Achille Starace alla presidenza del Coni cambiò tutto: le donne dovevano fare degli sport più consoni a loro e vincere delle medaglie utili alla causa del Paese.

«Il regime in quel momento guardava ai campionati mondiali di calcio maschile del 1934 e alle Olimpiadi di Berlino del 1936. E proprio in vista di questo appuntamento in Germania», afferma la Seneghini, «voleva formare delle atlete in grado di poter portare a casa delle medaglie più che lasciare delle ragazzine giocare a calcio. E poi questo sport, a detta di molti dell’epoca, non era adatto alle donne per dei pregiudizi che ancora oggi ci portiamo dietro».

Pregiudizi che hanno una storia che va oltre il 1933.

«Nel 1959, in piena Italia democratica, il Coni tornerà a vietare nel nostro Paese la pratica del calcio femminile», racconta Marco Giani, membro della Società italiana di Storia dello sport e autore del saggio in fondo a Giovinette, «segno di un perdurante pregiudizio, difficile da scalfire. Il come sia possibile tutto questo», continua, «è facile da spiegare: ostacoli di ogni tipo da parte dei dirigenti delle federazioni, ma anche silenzio, derisione e distruzione di una memoria condivisa all’interno della comunità nazionale della calciatrici, per cui quelle che ricominciarono nel 1946 non sapevano delle milanesi del 1933, e quelle di fine anni Cinquanta non sapevano di quelle del 1946 e così via. Mi è capitato di leggere persino delle interviste delle attuali azzurre che raccontano di come da bambine pensavano di essere le uniche al mondo a giocare a calcio!».

Certamente i mondiali di calcio femminili del 2019 in Francia, che hanno visto un vasto pubblico maschile seguire le imprese della nostra nazionale, hanno aiutato a far emergere questo sport e a farlo apprezzare a un vasto pubblico.

«È stato un punto di non ritorno per tutto il movimento calcistico femminile nazionale, non solo perché sono stati colti i frutti anche sportivi del grande lavoro intrapreso negli anni immediatamente precedenti, ma perché finalmente questo lavorìo sotterraneo ha portato a risultati mediaticamente visibili», ci tiene a sottolineare Giani.

«Le televisioni, Rai e Sky, hanno portato in prima serata il calcio femminile a casa degli italiani e delle italiane e complice anche la vergognosa mancata qualificazione degli azzurri al Mondiale dell’estate precedente, Russia 2018, quello di Francia 2019 è stato il palcoscenico perfetto per dire a tutta Italia “guardate che esistiamo anche noi!”. Se pur eliminate dalle olandesi ai quarti di finale, le azzurre sono tornate a casa da vincitrici, tanto che il Presidente Mattarella le ha ricevute al Quirinale, dove Sara Gama ha pronunciato un breve discorso», ricorda Giani, «che andrebbe fatto vedere in tutte le scuole. Collegando il suo numero di maglia, il 3, all’articolo della Costituzione nel quale si legge che la Repubblica dovrebbe togliere tutti gli ostacoli all’effettiva uguaglianza fra i cittadini, Gama ha mostrato come il calcio femminile possa essere un potente volano per battaglie civili che vanno ben oltre il campo da gioco».

Un grande passo in avanti è stato fatto.

«Oggi le calciatrici godono di molto rispetto e di un’alta considerazione», precisa Marco Giani, «sia da parte delle società sia da parte del pubblico, così come dai coloro colleghi. Leggendo qualche tweet dopo la Partita del Cuore di poco tempo fa mi hanno colpito non solo le numerose foto delle Juventus Women con i calciatori maschi in campo, ma soprattutto il fatto che molti tifosi lodassero l’ineccepibile gioco delle bianconere, chiamate a mettere una pezza femminile al disastro mediatico combinato dai maschi».

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