Nella ricca torta dei Recovery Fund (circa 222 miliardi di euro, sempre che questa crisi politica non ce li faccia scappare), poco meno di 30 sono destinati al mondo della scuola. In particolare si parla di 28,49 miliardi, di cui 16,72 per il “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio” e 11,77 per agevolare il passaggio ‘Dalla ricerca all’impresa’.

Nel documento Next Generation Italia (qui il testo completo) ci sono un paio di passaggi che meritano una riflessione. Il primo si trova a pagina 120: “Si deve quindi costruire una carriera docente dando l’opportunità ai docenti più dinamici e capaci di assumere responsabilità all’interno della scuola, accompagnata alla possibilità di crescere in ruolo.”

Il grafico sintetizza gli investimenti previsti dal Recovery Fund nella bozza Next Generation Italia


Curioso che un ministro pentastellato riproponga, in altra salsa, un renziano cavallo di battaglia già accennato nella Legge 107/2015, denominata con involontario umorismo “La Buona Scuola”. Ritorna, infatti, il mantra che la carriera del docente sia nel trovare spazio non nel riconoscimento del lavoro fatto in classe, quanto piuttosto nell’assunzione di responsabilità, non necessariamente collegate con l’attività didattica.

Se il parametro discriminante prima era l’esperienza, oggi diventa la dinamicità (tipica caratteristica dei cinquantenni, che è l’età media dei docenti italiani).

Siamo alle solite: la scuola, sempre più intesa come azienda che sforna addetti per il mondo del lavoro (ecco spiegate le risorse “Dalla ricerca all’impresa”), allo stesso modo deve arruolare docenti orientati alla carriera, che qui consiste nell’assumere responsabilità che vanno oltre la relazione coi ragazzi e oltre l’insegnamento per cui teoricamente è stato assunto.

Quindi, l’ambizione di un docente dovrà essere quella di diventare un preside che non ce l’ha fatta (o un impiegato deluxe), mentre sullo sfondo rimane il sempre ignorato paradosso della meritocrazia che sul lungo periodo è garanzia di implosione del sistema. Ovvero, chi è bravo a svolgere il proprio lavoro di insegnante è “destinato” a non poterlo più svolgere, perché promosso a fare altro, sicuramente con più responsabilità, mentre solo chi svolge male o mediocremente il proprio rimane stabile al suo posto.

Il secondo passaggio interessante è a pagina 90: “Realizzazione di nuove scuole mediante sostituzione edilizia. Realizzazione di nuove scuole sostituendo parte del patrimonio scolastico vetusto, soprattutto nelle aree a maggior rischio sismico, incremento aree verdi, digitalizzazione degli ambienti di apprendimento attraverso il cablaggio interno delle scuole. Il numero degli edifici oggetto di intervento è pari al 20% del patrimonio esistente.” In sé sembrerebbe un ottimo provvedimento: il 20% del patrimonio edilizio scolastico, a partire da quello più vetusto e meno adatto alle esigenze della vita scolastica e di relazione, dovrebbe essere abbattuto e ricostruito. Ma non è così: se le priorità sono – ed è giusto che sia così – la messa in sicurezza contro il rischio sismico e il cablaggio della rete, evidentemente il piano si ridurrà, fatti due conti, a un aggiustamento dell’esistente e non certo a un necessario rinnovamento in funzione delle esigenze didattiche e dei ragazzi che vivono quegli spazi.

Spazi che ciascuno di noi, per la propria esperienza, può ricordare con chiarezza: palazzi storici in centro dall’acustica terribile e scomodi o mostri di cemento degli anni settanta-ottanta dove gli spazi per la socialità dei ragazzi sono comunque risicatissimi. «Sogno una scuola più inclusiva, dal passare messaggi contro il razzismo e dove non si pensi che il personale scolastico viva in compartimenti stagni. Sogno una scuola aperta di pomeriggio, un centro per la comunità, un presidio di legalità», dichiarava la ministra Lucia Azzolina il 21 febbraio 2020: un sogno che nelle bozze si è perso e ridotto più pragmaticamente alle pulizie di primavera.

Insomma, la società scende in piazza per indicare la direzione e la politica tira dritto per la sua strada, come abbiamo già visto. Le proteste delle famiglie e degli adolescenti di questi mesi (le ultime oggi ad Ascoli) contro la Didattica a Distanza sono un grido disperato contro la perdita della socialità, della relazione, del crescere, del confrontarsi: il grido di dolore di un’umanità frammentata e dispersa senza colpe.

La bozza del Recovery Plan, invece che rispondere a questi bisogni, punta le risorse sul modello scolastico degli ultimi vent’anni, con un accentuarsi della scuola come luogo di addestramento, in funzione del mondo dell’impresa (e per il senso di cittadinanza bastano due ore di educazione civica?), e la trasformazione del ruolo del docente da educatore a professionista in carriera che, se proprio insiste, potrà anche avere un dialogo che non sia solo didattico con gli alunni.

Sempre che non sia d’intralcio alla sua carriera, naturalmente.

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