Mentre all’orizzonte luccicano sempre più affascinamenti ma sfuggenti i danari del Recovery Found, che mese dopo mese sembrano sempre più nel forziere di Willy l’Orbo del film “I Goonies”, Confindustria propone un testo dal titolo, “Il Coraggio del Futuro. Italia 2030-2050”: un libro di 385 pagine (scaricabile qui) che spiega il punto di vista di Confindustria, ovvero “la principale associazione di rappresentanza delle imprese manifatturiere e di servizi in Italia.” Si tratta di un’analisi di sistema che rappresenta un salutare bagno di realtà, specie nelle proiezioni economiche e nel segnalare i maggiori problemi del Paese in tema di ritardo tecnologico, giustizia, disuguaglianza sociale e via dicendo.

Ancora più interessante, tuttavia, è il futuro che Confindustria intravede per il mondo del lavoro e le scelte che si impongono necessariamente al nostro Paese per rimanere competitivo. Un Paese, dunque, che avrebbe bisogno di investimenti importanti in settori strategici come il welfare, la scuola, l’Università, la natalità (a spese dello Stato, immaginiamo, oltre i fondi europei; cfr. p. 24) ma che, soprattutto dovrebbe prepararsi a un drastico cambio di paradigma: la perdita di buona parte dell’occupazione umana, sostituita dalla robotizzazione. E in questo scenario che fine faranno i nostri giovani?

Per Confindustria, è evidente che nel prossimo futuro da una parte si ridurranno, fino addirittura a sparire, le cosiddette “professioni intermedie” (che solitamente svolgono azioni ripetitive) che verranno svolte interamente dalle macchine e dall’altra che avremo una netta “polarizzazione”: aumenterà il bisogno di dirigenti e, allo stesso tempo, di lavori non manageriali che non possono essere di routine (per esempio addetti a vendite e servizi). Quindi, per prima cosa, se come qualcuno sostiene effettivamente “tutto è mercato”, l’Umanesimo e i percorsi scolastici non scientifici non serviranno più: l’imperativo sarà “formare uomini e donne artefici del proprio destino” sì (p. 302; gli antichi Romani avrebbero chiosato “faber est suae quisque fortunae”), ma solo nel senso di gestire e non subire il cambiamento tecnologico.

La scuola, la conoscenza diventano così meri strumenti: attraverso l’educazione – per i giovani al motto di “saper, saper fare, saper essere” (p. 325) – e la formazione continua si deve incentivare la creatività per resistere alla concorrenza mentre sparisce l’idea di cittadino, se non all’interno del concetto di mercato. Perché parliamoci chiaro: il manifatturiero ha bisogno di diplomati tecnici (invece, il 37% ha la licenza media, il 35% diploma superiore, solo 1/10 laurea) e le aziende preferiscono – com’era prevedibile – i diplomi tecnici professionali (84%; p. 126). Insomma: si deve privilegiare il percorso professionalizzante (p. 22), in contrasto con l’altrettanto dannosa deriva che ha preso la scuola nei nostri tempi, ovvero la liceizzazione. In effetti, il fatto che il 56,3% (dato 2020) degli studenti scelga un liceo rispetto a un istituto tecnico (30,8%) certifica solo il diffuso bisogno di riconoscimento sociale a scapito di una vera scelta sul proprio futuro; un percorso di studi che non specializza dà l’illusione di poter essere in potenza qualunque cosa, quasi un prolungamento dell’adolescenza.

Intanto, però, la scuola italiana è un disastro nella formazione, come certificano i dati OCSE-PISA sulla comprensione del testo e la matematica (p. 317): bisogna intervenire quindi rivedendo gli spazi con un nuovo impegno nell’edilizia scolastica, insegnanti 4.0 (con docenti preparati sulla didattica digitale e coinvolti a tempo pieno nell’Alternanza Scuola-Lavoro, ora PCTO, da ampliare). Soprattutto, è necessario puntare su profili specifici per il settore, come i ricercatori industriali, a cui si dovrà destinare il 30% delle risorse per i dottorati universitari (p. 140) perché, secondo Confindustria, non mancheranno i posti di lavoro per le persone con competenze specializzate e creatività.

I giovani saranno misurati su obiettivi, risultati “e sulla base di questo si deve orientare la bussola della premialità” (p. 15). Ovviamente, questo comporterà dei cambiamenti: devono sparire i limiti temporali nel lavoro, ora rigidamente limitato, per poter valutare il lavoro in “purezza”, ovvero il valore della creatività commisurabile nei risultati (p. 329). Addio al posto fisso e via libera a più contratti a tempo determinato (p. 310) con più libertà nel licenziare ma – e qui sta la vera novità – un salario minimo per tutti: la contrattazione aziendale aggiuntiva interverrà per alcuni gruppi di lavoratori, in base ai risultati e al valore di ciascuno, con benefits legati a un “welfare aziendale” che, si suppone, sarà ambito e necessario per coprire la prevedibile ritirata di quello pubblico (p. 341).

In cambio, i giovani e i lavoratori dovranno e potranno partecipare alla cogestione della governance. In effetti, il termine “partecipazione” torna nel testo ben 63 volte, ma siamo ben lontani dal modello tedesco o dalla teoria del modello Corporativo fascista: viene caldeggiata una partecipazione individuale, volontaria ma che non imbrigli con norme ulteriori e specifiche le imprese (p. 343). Insomma, entusiasti e partecipativi, ma ciascuno al proprio posto e con lo spirito del volontariato: la governance della proprietà non si tocca.

Tirando le somme: che futuro attende i nostri giovani? Un mondo, quello di domani, non di cittadini ma di operatori, probabilmente divisi tra un’élite di iperspecializzati e creativi, una base di venditori e di lavoratori non sostituibili e un’infinita massa nel limbo degli “occupabili”, a carico dello Stato, perennemente allo studio di uno spiraglio per entrare nel sistema; ed ecco, quindi, un altro cambio di paradigma: si passa dal nodo occupazione a quello dell’occupabilità (p. 301).

Confindustria, di fatto, mette nero su bianco una realtà che si va già affermando di giorno in giorno. Un mondo non di Stati, oramai sullo sfondo, ma di aziende in conflitto, in perenne competizione per il sacro obiettivo: produrre più di prima, sempre di più e, se il nostro mondo si ostina a rimanere un ecosistema chiuso, tanto peggio per lui. A vantaggio di chi, a quale costo (umano e ambientale) non importa. In questa logica, il futuro è produrre fino all’ipertrofia secondo un modello industriale tardo ottocentesco che, se la memoria non ci inganna, portò dritti alla Prima guerra mondiale. Ma la vera domanda è se, in questo futuro così probabile e prossimo, con un’umanità così formata, avremo ancora bisogno di distinguere l’uomo dalle macchine che dovrebbero sostituirlo.

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