«Sono il soldato di una guerra invisibile. Quando dico “noi” non so chi siamo “noi”. Siamo una moltitudine di solitudini.» Chi parla è Marco, ha trent’anni ed è il protagonista della storia che Concita De Gregorio ci racconta nel suo ultimo romanzo In tempi di guerra.

L’autrice è giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica, editorialista de “La Repubblica” e ha alle spalle diverse opere letterarie di successo tra le quali ricordiamo, fra le più recenti, Mi sa che fuori è primavera (2015, Feltrinelli), Cosa pensano le ragazze (2016, Einaudi), Nella Notte (2019, Feltrinelli).

Il suo nuovo libro rappresenta un testo di denuncia e di accusa nei confronti della società attuale, che ha cancellato aspettative, sogni, speranze ai nuovi adulti di domani.
Prendendo spunto da una richiesta di ascolto di un giovane trentenne, nella sua rubrica su “La Repubblica”, Concita De Gregorio realizza il libro con una sorta di dialogo tra il giovane e la scrittrice, dove quest’ultima controbatte ai racconti epistolari del medesimo con riflessioni condite di arte, libri e musica. Attraverso la voce di Marco, parla di “guerra invisibile”, quella guerra che oggi i giovani combattono per riuscire a trovare il loro posto nel mondo, un conflitto senza armi, senza un preciso nemico da combattere. 

Il protagonista, dentro a sei diari e quattro scatole di lettere – missive, ricevute e inviate ai nonni, alla madre, al migliore amico, alla sorella – racconta le vicende che hanno contraddistinto anche le dinamiche della sua vita intima e famigliare. Il protagonista parla del bisnonno partigiano, del nonno paterno dirigente del partito comunista, del nonno materno scienziato, dei genitori prima rivoluzionari e poi testimoni di Geova, ognuno di loro con il proprio posto ben definito nella società, con una posizione, un ruolo. Emergono il disagio e la frustrazione che oggi un trentenne, senza nessuna stabilità per poter essere qualcuno, prova di fronte a un mondo che non dà più certezze, dove tutto è stato mangiato, sbranato, polverizzato dalle generazioni che lo hanno preceduto.

Con questo romanzo, De Gregorio porta il lettore non solo dentro alla storia di Marco ma anche all’interno delle problematiche che vive un’intera generazione di trentenni, di cui Marco ne è l’emblema. Sono i figli del novecento, che sempre più si sentono privi di una precisa destinazione, di una luce in fondo al cammino e che sopravvivono a questa società giorno per giorno ormai senza progetti e senza un futuro per cui lottare: «Io non so come penso di vivere adesso, figuriamoci tra trent’anni. Come fai a immaginare un cammino, – una destinazione, addirittura – se la strada non c’è? Se non la vedi, la strada, e uno ti chiede dove stai andando, cosa rispondi?».

Concita De Gregorio

Emerge, chiaramente, il disagio che i giovani sentono perché non hanno più la certezza del lavoro o che dopo il sacrificio dello studio vi sia una possibilità, una speranza: «È che ci avete lasciato senza niente – nient’altro – da fare. Senza lavoro, principalmente, certo. Ma soprattutto senza qualcosa in cui credere. Un posto a cui appartenere. Non c’è ora, non c’è noi: parole sparite. Avete consumato tutte le speranze, come se fosse un banchetto solo vostro. Ve le siete mangiate, e poi siete tornati a casa a scrivere i vostri libri, a presiedere le vostre fondazioni, a coltivare viti pregiate e fare vini. Avete sterminato generazioni intere dopo di voi».

L’autrice non dà nessuna chiave magica per aprire la porta e trovare soluzioni, ma una sua visione globale dello stato delle cose, attraverso uno sguardo morbido, delicato, a suo modo artistico, dando un segnale di apertura di fronte al disagio di Marco e della sua generazione, un segnale di ascolto e di comprensione, perché tali debolezze e paure non devono essere nascoste, bensì condivise, gridate e accolte con una voce di speranza e non di resa: «Anche quando non sembra. Anche quando fuori c’è la nebbia e nessuno ti indica la strada e hai solo voglia di sparire. La vita corre e chiama, bisogna saperla ascoltare. Volerlo fare, avere qualcuno che voglia farlo con te. Qualcuno che “ti vede”, e “ti sente”. È sempre una questione di ascolto…»