«Perché con viso torvo, o fiorentino,

dall’alto del marmoreo piedistallo,

rimiri il fu palazzo ghibellino?

V’è forse in te il rimproverar d’un fallo?

Ancor sei corrucciato col Signore

seduto in groppa all’algido cavallo,

da cui, per non sentirti debitore,

partisti da Verona per il mare

a consumare l’ultime tue ore?»

Così diss’io, trovandomi a osservare

il volto disdegnoso del Poeta.

Ed ei che m’ebbe udito dubitare:

«Non sono irato», disse a voce queta,

«ma rassegnato a tanta indifferenza

che dovrebb’esser nota e par segreta».

E qui parve guardar, sanz’indulgenza,

di fronte a sé l’angusto vicoletto

che causa io credei di sua sentenza.

Allor mi volsi verso il pertugetto

che dalla piazza detta “dei Signori”

a quella “delle Poste” va diretto.

E come alzai lo sguardo tra i due fori,

m’apparve innanzi agli occhi un’iscrizione

che tra i mattoni e ’l marmo sporgea fuori.

Pensai che fosse quella la cagione

del borbottar sommesso, quando lessi

quel nome, a cui si deve devozione,

storpiato da color che, forse fessi,

con ridondanza scrissero Allighieri

invece che Alighieri. Ahimé, che dessi!

I’ cominciai: «Poeta, volontieri

dimanderò al consiglio cittadino

che mondi quell’error per cui disperi».

Ed elli a me, con sdegno saturnino:

«Non è uno strafalcione, come crede

ch’io sia adirato con lo scalpellino».

Io stava come quei ch’apparir vede

sull’altrui volto un ghigno risentito

e pensa e non capisce che succede.

Quand’ecco dal mio orecchio fu avvertito

un chiacchierar stranito e petulante.

Mi volsi e vidi un tale che col dito

schiacciando un mattoncino, delirante

parlava con se stesso. E mi fu udito:

«Son qua. T’aspetto. Vieni in Piazza Dante».

Qual è colui che postogli un quesito

non trova, pur pensando, soluzione

e tosto che la trova n’è colpito,

tal era io, risolta la questione

del volto che poc’anzi s’abbruniva.

Perciò ricominciai, con decisione:

«Poeta la cui fama è ancora viva,

ora ho capito ciò che ti tormenta

e sanz’indugio prendo iniziativa».

Allor con quell’ardor che il cuore imprenta,

mi misi a verseggiare questo canto

che giunge a te lettor, ché tu lo senta.

Ne la città che gli fu cara quanto

la sua Fiorenza da cui fu bandito,

la nota piazza, di cui egli è il vanto

pe ’l monumento dove fu scolpito,

perché ai signori è stata intitolata

e invece a lui quel vicolo scipito?

I veronesi l’hanno battezzata

con il suo nome, non con quell’altrui,

e con quel nome l’hanno sempre amata.

Per onorar la gloria di colui

che qui a Verona scrisse le terzine

così che l’eternò co’ versi sui,

propongo, o cittadini e cittadine,

la Piazza dei Signori detta innante

nel centenario dall’umana fine

si chiami d’ora innanzi Piazza Dante.