Se volete acquisire un’aura di mistero e di fascino esotico, andate in Laos. Primo, perché in pochi sanno dove sia (risposta: in Indocina); secondo, perché di tutti i posti in cui una persona può andare in vacanza, il Laos non è certo il primo della lista e quindi dà modo di intavolare un’interessante discussione sul perché il Laos sì e Casalborsetti no.

A Vientiane, la capitale del Paese, risiedo nel bellissimo hotel Khamvongsa, che sprizza fascino coloniale da tutti i pori, con i suoi ventilatori a stelo in metallo arrugginito e i pavimenti in legno di teak. In Laos, come nel resto dell’Indocina, la differenza di prezzo fra ostelli pulciosi e hotel belli in modo assurdo è veramente irrisoria; e quindi, essendo io fondamentalmente una borghese snob, sono stata ben felice di scialacquare una media di 25 euro a notte per hotel favolosi con lenzuola linde e colazioni opulente.

Vientiane non è niente di eclatante, e si potrebbe anche evitare, se non fosse per il meraviglioso Tempio Sisaket, che nelle sue pareti ospita migliaia di nicchie con altrettante statuine di Buddha e stupendi affreschi; mi concedo anche il miglior massaggio della mia vita nella favolosa spa Tangerine Garden, di fronte all’Ansara Hotel, per rimarcare il mio snobismo borghese.

Ogni hotel e agenzia locale organizzano i trasporti per le altre città; con un minivan raggiungo Vang Vieng,famosa meta turistica a circa 150 km da Vientane, su una strada di milioni di ripidi tornanti crivellati da enormi buche. La durata dei trasferimenti interni va calcolata tenendo presente che la velocità media di rado supera i 40 km/h, e che gli autisti sono spesso intenti a guardare telenovele laotiane sul cellulare mentre guidano nel traffico cittadino, oppure rischiano incidenti frontali con veicoli sull’altra carreggiata, e talvolta vengono colti da un colpo di sonno nel bel mezzo del mattino, finendo fuori strada e regalandovi un’esperienza di puro terrore.

Vang Vieng offre numerose opportunità di escursioni, fra cui il kayak e la mongolfiera: è meta prediletta dai ventenni, anche grazie ai suoi passati fulgori di località di sballo e rave party, ora ridimensionata perchè comprensibilmente la gente del posto non ne poteva più dei ragazzini americani strafatti che affogavano a frotte nel fiume. Di per sé la cittadina non si può definire bella, con i suoi molti grandi hotel moderni che deturpano il lungofiume, ma le montagne circostanti sono una meraviglia, e se avete voglia ed energie per affrontare l’ascesa al belvedere nonostante il caldo sarete ripagati del sacrificio.

Turistica, ma piena di fascino, Luang Prabang è tutta edifici in stile coloniale francese, bellissimi templi buddisti, viali bordati da lussureggianti ed enormi alberi, piante di bouganville e orchidee, localini molto eleganti progettati da architetti europei, con prezzi esorbitanti. Pur essendo l’antica capitale e città molto vivace, ha un’atmosfera rilassata, languidamente adagiata sul fiume Mekong. Merita una visita anche il Palazzo Reale, del quale il ricordo più vivido mi resterà l’agghiacciante olezzo di piedi che emanava dalle centinaia di scarpe parcheggiate sotto il sole cocente davanti alla biglietteria del palazzo; tutta la mia solidarietà va alla povera bigliettaia che ogni giorno deve lavorare con la sensazione di avere la testa infilata in un secchio di gorgonzola. Olezzo di piedi a parte, il Palazzo Reale è molto interessante.

Sconsigliatissima invece la levataccia alle 4.30 del mattino per vedere la questua dei monaci buddisti che escono dal tempio vicino alla strada del Night Market; scegliete piuttosto un tempio meno noto ed evitate quello lungo la strada principale (che è indicato sulla Lonely Planet), in cui sarete sommersi da orde di turisti cinesi sguaiati e urlanti, che, in barba alle indicazioni, saltano addosso ai poveri monaci per farsi selfie con loro, e vi pigliano a gomitate per passarvi davanti e fotografarli con il flash (cosa vietatissima). Stessa solfa al tempio di Wat Chom Si, che si trova in cima a una quantità assurda di scalini ripidissimi, dove gli intrepidi potranno godere di una bella vista su tutta la città; al tramonto è funestata da eserciti di turisti cinesi che cianciano senza requie a voce altissima sventolando i loro bastoni da selfie.

Io avevo tre ragazzine sedute sui gradini dietro di me che avevano ben pensato di attendere il tramonto armate di radiolina con canzoni di boy band cinesi, e si facevano mille selfie con le bottiglie di birra che si erano portate per l’occasione. Verso la dodicesima canzone di boy band cinese, non ci ho più visto e ho sbroccato in italiano gesticolando in stile commedia dell’arte per essere sicura di essere compresa. Loro mi hanno guardata allibite con la bocca piegata all’ingiù e hanno emesso all’unisono un “oooohhh” costernato, per poi ricominciare pochi minuti dopo a cantare a cappella mimando chitarrine invisibili, visto che la malvagia italiana aveva cassato la radiolina.  

Altro viaggio della morte, stavolta su un pittoresco bus locale sovraccarico, per raggiungere l’incantevole Nong Kiaw: un villaggio in mezzo alla natura, senza turisti cinesi (urrà!), affacciato su un fiume dal nome impossibile da ricordare (ma che sicuramente finisce in -ong, come un po’ tutta la toponomastica laotiana), offre belle escursioni fluviali su una lancia a motore, e un impegnativo trekking alle cascate dove è anche possibile fare il bagno per lenire nelle sue acque gelide il dolore delle punture delle vespe che evidentemente odiano i turisti.

Piccola parentesi sugli indigeni: i laotiani sono un popolo molto gentile e tranquillo. Non capiscono nulla di inglese, ma siccome gli pare brutto ammettere che non hanno capito, danno risposte completamente a caso. Tipo: “Quanto costa il trasferimento da Nong Kiaw a Luang Prabang?”; loro (sorridendo felici): “YES!”. Però di bello hanno che son sempre contenti, quindi forse il segreto della felicità è non capire niente.  

In sintesi: il Laos merita di essere visto? La mia risposta, come sempre, è sì. Non è caratteristico quanto il Vietnam e la Birmania, ma va detto che in dieci giorni ho dovuto limitarmi alle località più turistiche, dove la soffocante presenza cinese ha snaturato la tipicità locale. Avendo più tempo, vale sicuramente la pena di visitare le zone più rurali a sud, dove il turismo non ha ancora fatto danni. Con il Laos ho completato il mio immaginario album Panini dell’Indocina, e quindi ciao Indocina, mi sei piaciuta tanto, magari prova a variare la tua proposta gastronomica oltre il riso e pollo, ma comunque sei bella!