L’Italia ieri ha parlato a voce alta. Migliaia di persone, da Nord a Sud, hanno riempito le piazze in uno sciopero generale che resterà impresso nella memoria collettiva. Non solo per i numeri, impressionanti, ma per il significato profondo di quella mobilitazione: una richiesta di pace, di giustizia, di un cambio di rotta nella politica estera e nelle relazioni internazionali del nostro Paese.

Eppure, a dominare i titoli di giornali e notiziari, sono state soprattutto le immagini di Milano, dove la protesta è stata offuscata da momenti di tensione e violenza. Vetrine spaccate, cariche di polizia, manifestanti colpiti. Alcuni testimoni raccontano che siano stati gli agenti a usare la forza per primi, come successo anche a Marghera, dove gli idranti sono stati puntati apparentemente senza motivo (in attesa di ulteriori riscontri) contro chi manifestava pacificamente. Altri parlano di infiltrati, pronti a trasformare provocatoriamente un corteo ordinato in una guerriglia urbana per delegittimare la voce della piazza. Accuse pesanti, che meritano chiarezza, e sarà compito della magistratura e delle istituzioni ricostruire con precisione i fatti e individuare i responsabili, senza zone d’ombra e senza capri espiatori.

Si tratta di una notizia importante, sia chiaro, a cui è giusto dare il congruo spazio. Ma c’è un rischio che non possiamo permetterci: che l’attenzione si sposti solo sulla violenza, relegando in secondo piano la ragione stessa per cui così tante persone sono scese in piazza. Ieri, in tutta Italia, è risuonata una voce forte e limpida: basta con l’ambiguità nei confronti di Israele, basta con relazioni economiche e militari che ci rendono complici di un conflitto che continua a insanguinare la Palestina.

Altri Paesi europei, dalla Spagna alla Francia, fino alla Gran Bretagna, hanno già compiuto un passo decisivo, riconoscendo lo Stato di Palestina e assumendosi la responsabilità politica di dire chiaramente da che parte stare. L’Italia, invece, resta ferma, prigioniera di calcoli diplomatici e di relazioni strategiche che sembrano pesare più della voce del proprio popolo. Eppure, il messaggio arrivato dalle piazze di ieri è inequivocabile: la società civile non vuole più essere complice silenziosa.

Le immagini delle cariche e delle vetrine rotte passeranno in pochi giorni, lasciando dietro di sé solo un amaro strascico di polemiche. Ma il grido di chi ieri ha manifestato, pacificamente e in massa, non può essere oscurato. È la voce di un Paese che chiede pace e diritti. Sta alla politica ascoltarla, prima che il silenzio di questi anni diventi prova definitiva di una complicità più che colpevole.

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