Trascinati in altre emergenze, abbiamo in parte abbandonato la guerra civile che insanguina la Libia e che torna oggi alla ribalta internazionale per l’exploit del generale Khalifa Belqasim Haftar, una auto-proclamazione a capo supremo che sa un po’ di disperazione. Poco rimane del tanto acclamato Vertice di Berlino dello scorso gennaio, sia sotto il profilo dell’embargo che della tregua sanitaria. Tutto è continuato esattamente come prima, appena l’attenzione del mondo si è spostata su una contingenza imprevedibile e massacrante. Anni di combattimenti hanno creato le condizioni perfette per la diffusione dell’epidemia: mancanza di materiale sanitario e un sistema sanitario al collasso. È stato imposto un coprifuoco ma la fuga dal fronte dell’assedio ha spinto i residenti di Tripoli verso il centro. Senza acqua ed elettricità, l’ospedale di Al Khadra, presidio contro il Covid-19, è stato bombardato molteplici volte.

al-Serraj (sx), Macron e Haftar

Le truppe del Governo di accordo nazionale di al-Serraj hanno sferrato l’offensiva contro Tarhouna, città circa 65 km a sud-est di Tripoli che è considerata dagli osservatori l’ultimo bastione delle milizie di Haftar. Dopo un anno dal 4 aprile 2019 in cui iniziò la campagna militare sulla capitale da parte del generale della Cirenaica, lo scenario è molto cambiato e il governo di al-Serraj potrebbe essere alla svolta, dopo aver ripreso il controllo sull’intera costa. La più recente operazione ‘Tempesta di pace’ è stata preceduta da volantini per la popolazione, invitata a restare al sicuro, ma anche ai mercenari perché “rinuncino a combattere e possano godersi i soldi che vi hanno pagato”, con frasi scritte – chissà perché – in russo. La nota tv “al-Jazeera” definisce la caduta di Tarhouna come una disfatta per le truppe miliziane, in quanto Haftar vi avrebbe spostato il comando centrale da cui i suoi alleati guidano le strategie.

Più si va avanti con il conflitto e meglio emergono gli incastri di un puzzle veramente intricato. Nella partita, inizialmente giocata da due potenze come Egitto e Turchia, sono entrati i rispettivi alleati, alcuni anche sorprendenti. Da un lato Turchia e Qatar, a favore del governo di Tripoli; dall’altro, l’Egitto con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, dalla parte di Haftar. Proviamo a capire chi vuole che cosa, analizzando le complesse relazioni tra le parti.

Recep Tayyp Erdogan, il “Sultano” turco

TURCHIA – Ankara ha rapporti commerciali con la Libia fin dall’epoca ottomana, mantenuti durante la dittatura di Gheddafi e fino ai giorni nostri; i crediti vantati nei confronti delle società turche sono enormi e andrebbero persi insieme alla guerra. I due paesi sono legati da numerosi trattati bilaterali, per la cooperazione economica e tecnica (1975) ma anche per gli investimenti e la protezione (2009), al punto che intendono creare un’area di libero scambio. Gli investimenti turchi per progetti infrastrutturali superano i venti miliardi di dollari. Mentre altri paesi patteggiavano sotto traccia con le milizie o proponevano improbabili uomini forti, la Turchia ha avuto un approccio olistico, penetrando nella cultura e nell’alimentazione, con ristoranti e negozi, come nelle costruzioni. Turkish Airlines ha già riattivato i voli per Misurata (centro principale della comunità turca in Libia) e conta di tornare anche a Tripoli, appena l’aeroporto internazionale sarà sicuro. Infine, la crisi in Siria ha reso meno affidabili le rotte del petrolio dal Golfo Persico e Ankara ha spostato la sua strategia verso il Mediterraneo e dunque la Libia.

Hawad bin Khalifa al-Thani

QATAR – Doha ha sempre considerato la Libia una terra di opportunità più che altro politiche. Dopo le primavere arabe, ha cavalcato l’onda della trasformazione geopolitica, sostenendo i gruppi legati all’Islam politico e ai Fratelli Musulmani (sostegno ovviamente tradotto in armi). Con la crescente ingerenza dell’amica Turchia, il Qatar ha fatto un passo indietro, tanto che non era presente a Berlino. I due paesi hanno obiettivi simili per gli equilibri marittimo-energetici nel Mediterraneo, in contrapposizione con la seconda linea strategica, dei vicini sauditi.

Khalifa bin Zayed al-Nahyan

EMIRATI ARABI UNITI– Gli UAE ritengono la Libia una loro proiezione strategica verso il Mediterraneo e verso sud (Sahel e Africa continentale) e sono interessati a sostenere Haftar, ma soprattutto a intrecciare alleanze con le numerose tribù sue seguaci. Uno degli interessi principali riguarda la cosiddetta ‘String of Ports’, una catena di porti che nella visione emiratina dovrebbe completare la “Belt and Road Initiative” cinese, permettendo al Qatar di diventare partner indispensabile di una potenza vista in grande ascesa, che garantirà influenza internazionale. L’altro motivo, più politico, è quello di contrastare  la Fratellanza musulmana, che in questo momento ha nella Turchia il paese di riferimento. Ecco come il nemico del mio nemico si trasforma magicamente in un ricco e generoso amico. Nelle due settimane (12-26 gennaio), Abu Dhabi ha creato un vero e proprio “ponte aereo” con circa 40 voli strategici ed enormi quantità di rifornimenti bellici. E quel che non vola, arriva a destinazione con l’aiuto dell’amico Egitto.

Abdel Fattah al-Sisi, il Faraone

EGITTO – ufficialmente, il presidente al-Sisi è preoccupato soltanto per le sorti dei cittadini egiziani emigrati in Libia, che versano rimesse al Faraone per 20mld di dollari, linfa vitale per uno stato in difficoltà. Da anni porta avanti quella che appare come un’iniziativa diplomatica, una missione di rappacificazione. Ma c’è ben altro, ovviamente. È noto che la Libia possiede enormi giacimenti petroliferi che – seppur al momento non operativi – le conferiscono una certa influenza nel contesto mediterraneo. A far gola è dunque il futuro energetico dell’Egitto: un paese con un ingente piano di rilancio industriale ha necessità di petrolio, che può arrivare dall’amico Haftar, se diventa leader riconosciuto. Ecco perché sta di fatto trasportando oltre confine gli armamenti e attrezzature, quei droni (di fabbricazione cinese) che gli Emirati hanno generosamente fornito.

Trump e Mohammad bin Salman, il Principe saudita

GLI ALTRI – in tempo di guerra, ogni buco fa trincea, dicevano i nostri nonni. E allora, un aiuto arriva anche da dove non ti aspetteresti. Un’indagine della testata “Middle East Eye” riporta notizie e dati sul coinvolgimento del Mossad. Non sorprenderà più di tanto apprendere che Haftar è un cittadino americano considerato vicino alla CIA durante il suo esilio, sotto il regime Gheddafi; ovvio quindi che gli USA e i loro alleati seguano la questione da vicino. La ‘Israel connection’ è sicuramente meno vistosa di quella russa, ma non meno importante. Se si guarda al ruolo di Haftar come il risultato di un asse tra Egitto, UAE, Arabia e Israele, assume valore quella che appare come l’ennesima ironia della Storia. La tv “Al Araby” riporta che i sistemi di difesa aerea forniti dagli Emirati sono stati fabbricati in Israele e consegnati via Egitto. Si specula sulla possibilità che sia in effetti il Mossad a coordinare le operazioni egiziane, sulla scorta dei numerosi incontri al Cairo tra intelligence israeliana e Haftar al Cairo negli ultimi tre anni. È il Mossad che avrebbe fornito visori notturni e fucili di precisione, così come addestrato le milizie alle tattiche di guerra. Israele ha sempre tenuto un occhio sulla Libia, rea di accogliere militanti palestinesi; ora che è coinvolta direttamente la Turchia, ha un motivo in più: bloccare i piani di Erdogan per l’egemonia energetica sul Mediterraneo, che potrebbe ripercuotersi sui propri accordi con Cipro per un gasdotto da Israele verso Grecia e Italia.

Eleonora Ardemagni, ricercatrice della “Nato Defense College Foundation” ha descritto la situazione con un’efficace metafora tennistica, definendola “una sorta di doppio, finalizzato a indebolire il più possibile la coppia avversaria”. Senza arbitro, possiamo aggiungere, appare arduo trovare una soluzione politica, dopo che la strategia militare, con un anno di assedio, oltre 2000 morti e 150mila sfollati, si è dimostrata inefficace. La comunità internazionale, distratta da altre più pressanti (e più vicine) questioni, fatica a nominare un successore a Ghassan Salamé, l’ex inviato Onu per la Libia che lo scorso 3 marzo ha rinunciato all’incarico. E nel frattempo, i disperati continuano a prendere il mare, per poi essere quasi sempre intercettati dalla Guardia Costiera libica e finire nei centri non ufficiali, dove diventano vittime di abusi e di traffici. Il fatto poi che le coste siano sotto il controllo del governo di Tripoli, aiutato da quello stesso Erdogan che scarica interi autobus di rifugiati sui confini verso l’Europa, potrebbe complicare non poco le cose anche per l’Italia.