Nemmeno una settimana fa, il 18 giugno 2025, Donald Trump annunciava la possibilità di un intervento militare in Iran con alle spalle, in piedi a fargli da sfondo, i giocatori e il presidente della Juventus; in una scena degna dei più immaginifici film di fantascienza, il presidente degli Stati Uniti e Gianni Infantino, presidente della FIFA, si scambiano battute che, alla luce degli avvenimenti successivi, appaiono distopiche e terrificanti.

Perché una delegazione di una squadra di calcio italiana viene ricevuta alla Casa Bianca da Donald Trump?

La Juventus partecipa da quest’anno alla competizione del Mondiale per Club dal volto nuovo, trasformatasi in un grande torneo a 32 squadre simile alla Coppa del Mondo per nazionali; non si gioca più ogni anno, ma ogni quattro, e la prima edizione con questo nuovo formato si sta svolgendo proprio negli Stati Uniti tra giugno e luglio di quest’anno. Niente più minitorneo tra poche squadre: il Mondiale per Club diventa una vera e propria rassegna globale, pensata sulla carta per aumentare il prestigio internazionale del calcio per club e offrire ai telespettatori uno spettacolo più lungo e competitivo.

Ma che cosa c’è dietro alla nuova competizione? Il Mondiale per Club FIFA 2025 si presenta in pompa magna come uno degli eventi sportivi più attesi, ma le affascinanti sfide calcistiche tra i top club mondiali e gli enormi stadi deserti celano un intreccio complesso di interessi geopolitici, economici e militari. In un momento storico in cui Israele ha bombardato l’Iran dopo anni di genocidio in Palestina, e gli Stati Uniti hanno replicato con un attacco analogo, la competizione assume una valenza che supera di gran lunga i confini dello sport: l’evento diventa infatti uno strumento utile a Donald Trump, all’industria della difesa statunitense e agli alleati americani in Medio Oriente per rafforzare la loro presenza strategica, in particolare nel controllo dello Stretto di Hormuz, snodo cruciale per il commercio energetico globale, conteso da tempo appunto con l’Iran. Questo è possibile grazie alla legittimazione sociale ed economica enorme che il possesso diretto o indiretto di un club calcistico fornisce oggi, e tramite le possibilità di investimento che aumentano a dismisura nel controllare la grande liquidità che circola nell’ambiente calcistico.

Dietro la maggior parte delle squadre partecipanti, infatti, si nascondono legami profondi con potenze e gruppi economici la cui influenza va ben oltre il campo di calcio.

Il Manchester City, proprietà dello sceicco Mansour e parte del Abu Dhabi United Group, il Paris Saint-Germain finanziato da Qatar Sports Investments e l’Al Hilal, sotto il controllo del Public Investment Fund saudita, rappresentano la penetrazione diretta dei Paesi del Golfo nel calcio internazionale. Questi Stati, in prima linea nel conflitto con l’Iran, dopo aver conquistato l’ambiente calcistico più redditizio del mondo, quello europeo, ancora una volta utilizzano lo sport come piattaforma di soft power per consolidare alleanze e affermare la propria influenza geopolitica.

Parallelamente il legame tra gli Stati Uniti, i suoi gruppi finanziari con interessi nel settore della difesa e delle tecnologie dual-use e le squadre partecipanti al Mondiale per Club emerge se si osservano le proprietà di squadre come Inter Miami e Los Angeles FC, controllate dai fondi di investimento Ares Management e Apollo Global Management, legati a doppio filo a colossi dell’industria della difesa come Lockheed Martin.  L’azienda militare, ad esempio, ha fornito a Israele i caccia F-35 che il 26 ottobre scorso hanno lanciato missili aria-terra a lungo raggio sul sistema radar iraniano, eliminando in un giorno l’80% delle difese antiaeree iraniane.

Anche le squadre europee come Juventus, Inter e Borussia Dortmund fanno parte di questo mosaico. Se la famiglia Agnelli-Elkann, attraverso Exor N. V., domina la filiera dell’automotive militare in Italia tramite Stellantis e IVECO Defence Vehicles, l’Inter si sostiene grazie a finanziamenti provenienti da fondi come Oaktree e Brookfield, e collegati a grandi banche come Bank of America, che intrecciano finanza, sport e strategia militare in un’unica rete di potere. La notizia che per la prima volta un’azienda produttrice di armi, la Rheinmetall, sponsorizza una squadra della Bundesliga, il Borussia Dortmund, a questo punto non stupisce più.

In questo quadro, la politica fa la sua parte. Nel marzo 2025, Donald Trump ha istituito una task force per coordinare il Mondiale 2026, sottolineando ancora una volta come gli Stati Uniti intendano utilizzare la risonanza globale del calcio per rafforzare la propria leadership internazionale. La collaborazione tra Trump e Gianni Infantino, presidente FIFA, è evidente, con incontri ufficiali ed eventi che coinvolgono anche i leader del Golfo, un segnale chiaro di come lo sport diventi un terreno di alleanze strategiche.

La capacità di espansione che deriva dalla presenza in questa maxi-operazione globale dello spettacolo sportivo si può osservare se si leggono le notizie degli ultimi giorni. Ares Management, fondo d’investimento che detiene già partecipazioni nell’Inter Miami CF, nella McLaren Racing e nell’Atlético de Madrid, finanziatore oltretutto dell’Atalanta, ha appena acquisito una quota del 20% di Plenitude, la controllata energetica di Eni. L’investimento di circa 2 miliardi di euro riflette una convergenza tra interessi energetici, finanziari e militari, con la sicurezza energetica che si intreccia inevitabilmente con le tensioni nel Medio Oriente, e dimostra la capacità del calcio di funzionare come grimaldello per settori economici strategici. Eni, infatti, è proprietaria del giacimento petrolifero di Zubair, uno dei più grandi del mondo, nel sud dell’Iraq, il petrolio del quale deve passare proprio dallo stretto di Hormuz per raggiungere i mercati globali.

In definitiva, il Mondiale per Club 2025 si configura non solo come una competizione sportiva, ma anche come un palcoscenico internazionale dove si intrecciano interessi di potere che coinvolgono multinazionali, governi e industrie militari. L’evento diventa una leva per Trump e i suoi alleati per legittimare alleanze strategiche, rafforzare la presenza militare e consolidare il controllo economico in una regione delicata come lo Stretto di Hormuz.

Questa realtà invita a una riflessione più profonda sul ruolo dello sport nella geopolitica contemporanea, rivelando come il calcio possa essere strumento e vittima di interessi che vanno ben oltre la passione per il gioco, trasformandosi in un nodo cruciale del potere globale.

Articolo uscito a firma di Emiliano Palpacelli su Pressenza, partner di Heraldo.

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