Dobbiamo tutti fare un grosso sforzo d’immaginazione. Tornare ad avere 12 o 13 anni, essere appassionati di calcio e attendere con trepidazione l’arrivo del Natale. Cosa vorremmo trovare sotto l’albero? Un paio di scarpini nuovi, la maglia di Mbappé… o il Mondiale ogni due anni?

Ok, questa non è un seduta olistica e il Natale è appena passato, però sul sogno del presidente FIFA Gianni Infantino è giusto ragionarci attentamente. Anche perché questa discussione ce la porteremo dietro per un bel po’. Soprattutto adesso che pare finito il tempo degli abboccamenti e si comincia ad entrare nel merito dei progetti.

«Il passaggio a una Coppa del Mondo biennale fornirebbe un fatturato aggiuntivo combinato di 4,4 miliardi di dollari dal primo ciclo di quattro anni. Con questi fondi che verrebbero distribuiti tra le nostre 211 associazioni membri. Verrebbe anche istituito un fondo di solidarietà da 3,5 miliardi di dollari con ricavi da distribuire a tutte le federazioni». Parole e musica del presidentissimo del calcio mondiale, fondate sui risultati degli studi di fattibilità realizzati da Nielsen e OpenEconomics e presentati durante il FIFA Global Summit degli scorsi giorni.

Che Infantino stia puntando la maggior parte delle proprie fiches sui mondiali ogni due anni è cosa nota.  Da qualche mese sta sponsorizzando l’idea in tutte le sedi possibili. Credo di averlo intravisto anche ad una sagra della castagne in Val d’Alpone qualche settimana fa.

Il presidente FIFA Gianni Infantino (foto www.fifa.com)

Nuovi, semmai, sono i numeri che cominciano ad uscire fuori. A quelli elencati prima, si aggiungono quelli della ricerca Nielsen, incentrata sull’ambito finanziario. Se anche le confederazioni trasferissero le fasi finali maschili a un ciclo biennale, l’aumento di fatturato complessivo per il calcio mondiale sarebbe calcolabile in 6,6 miliardi di dollari nel primo ciclo di quattro anni.

Lo studio di OpenEconomics, che si è focalizzato sulle prospettive macroeconomiche, ha invece previsto un aumento del PIL di oltre 180 miliardi di dollari in un periodo di 16 anni. Generando al contempo due milioni di posti di lavoro a tempo pieno, fissi, nel mondo.

A leggerli così, nero su bianco, certi dati, qualche considerazione nasce spontanea.

Trattasi forse del più classico caso di paraculata massima? Con una pandemia che si dimostra sempre in grado di incidere nei calendari calcistici e vista la delicatezza del momento che, dal punto di vista economico e occupazionale, sta attraversando lo sport tutto… perché non usare la leva del lavoro fisso e dei guadagni per guadagnare consensi?

Fosse così, mi sarei aspettato anche un bel videomessaggio di Natale. Con un Infantino mellifluo e sorridente, seduto di fronte alla libreria d’ordinanza. Esclusa quindi l’ipotesi “paraculata”, possiamo andare più in profondità? Cioè, non fraintendetemi, bello il PIL, fantastici i posti di lavoro, ma qui bisogna andare oltre i titoloni ad effetto. Anche perché si potrebbe eccepire che pure il Mondiale in Qatar ha aumentato l’occupazione. Certo, c’è quel dettaglio collaterale dello sfruttamento dei lavoratori e dei diritti non rispettati. Ma quelle sono cifre che non finiscono mai nei bilanci.

Comunque, per non fare del populismo facile, l’idea complessiva del presidente FIFA io la vorrei davvero ascoltare in ogni minimo dettaglio. Dovrebbe anzitutto spiegare come intende rendere sostenibile il carrozzone dei grandi eventi sportivi che, da decenni, impattano in maniera deflagrante su stati, città e comunità ospitanti. Gli slum rasi al suolo in Sudafrica e gli investimenti senza senso fatti in Brasile sono lì a dimostrare l’esatto contrario.

Il sacrario semi-inutilizzato dell’Arena da Amazônia di Manaus, dove gli azzurri batterono l’Inghilterra, è un esempio perfetto dell’obsolescenza programmata di molti investimenti strutturali legati ai grandi appuntamenti dello sport. Costato tra i 220 e i 300 milioni di dollari alle casse statali, il grande “elefante bianco”, come lo ha definito il NYTimes, ha vissuto una breve ribalta: qualche incontro ai Mondiali e un altro paio alle Olimpiadi. Ora ospita le partite interne del Nacional (quarta serie brasiliana) per la modica cifra di 300mila dollari al mese di manutenzione.

Secondo i dati forniti dagli organi statali, per organizzare la Coppa del Mondo del 2014 il Brasile ha speso 13 miliardi di dollari. Certo, il volano economico di questi investimenti va analizzato sul lungo periodo, sta di fatto però che, secondo Forbes, di quella cifra ne sarebbero poi stati recuperati solo tre e mezzo, di miliardi.

L’Arena da Amazônia di Manaus, Brasile

Lanciamo però il cuore oltre l’ostacolo. Ipotizziamo che tutto il sistema legato all’adeguamento strutturale diventi virtuoso e futuribile, arriviamo alla questione dell’aumento di fatturato. Quella in cui dovremmo esigere la maggior trasparenza possibile a chi tiene le redini del calcio mondiale. Quantomeno per capire se, come già accaduto, in occasione del Mondiale, alla FIFA e a tutti i principali sponsor collegati all’evento sarà nuovamente permesso di operare in stato di eccezione e in regime di extraterritorialità, cioè senza pagare tasse. O se, anche in futuro, per ogni singolo sacchetto di patatine o bottiglietta d’acqua venduti nel raggio di N chilometri da un match, la FIFA otterrà il suo obolo.

Ma queste sono quisquiglie. I soldi veri, durante il Mondiale e nei mesi precedenti, si fanno altrove. Magari con la gestione dell’hospitality, con quella curiosa questione delle società sussidiarie che prenotano in anticipo quasi il 90% degli alberghi e poi gestiscono la rivendita delle camere con rincari che possono toccare il 500%.

Non c’è neanche bisogno di specificare, però, che la parte più gustosa della torta, sta nei diritti TV collegati a fasi finali e qualificazioni. E anche qui sarebbe da verificare se l’idea è quella di proseguire nella fruttuosa tradizione che vede questi diritti venduti a prezzi di favore a società dalla struttura piuttosto liquida. Vere e proprie scatole cinesi, spesso riconducibili a politici o dirigenti federali di questo o quel Paese. Società che poi rivendono i diritti tv ai broadcaster internazionali realizzando plusvalenze enormi. Il tutto in cambio di voti e sostegno. Ad esempio se c’è da assegnare un Mondiale al Qatar in pieno inverno.

Infront Sports & Media AG, Wanda Group e Match (suddivisa nelle sue sussidiare Match Hospitality e Match Service) sono solo alcuni dei colossi che negli anni hanno fatto affari con la FIFA. Sono sicuro che, a scorrere i componenti dei vari board e consulenti, qualche cognome di spicco l’avrete già sentito da altre parti.

Se dovessimo fare l’elenco di tutti gli scandali e di tutte le operazioni più spregiudicate legate all’enorme flusso di denaro che sta dietro all’industria del calcio, non basterebbe un libro. Sarebbe però ingiusto addossare tutto il carico sulle spalle di Gianni Infantino, che fin dalla sua elezione si è dovuto far carico dell’enorme fardello di incongruità dell’era Blatter.

La riforma più eclatante portata a casa in questi anni dal presidente FIFA è ovviamente quella del Mondiale a 48 squadre. Dal 2026 aumenteranno i posti a disposizione di un po’ tutte le confederazioni e crescerà anche il valore dell’evento. Dai 5 miliardi di dollari di Russia 2018 ai quasi 7 della nuova formula allargata. Proprio alla luce di questo “successo”, l’energia con cui Infantino sta spingendo per la cadenza biennale, fa sorgere un’ulteriore considerazione.

Di solito le cifre le tiri fuori in due casi: quando sei totalmente convito di avere in mano le carte vincenti, oppure quando ti trovi con le spalle al muro. Quindi, se hai appena portato a casa una riforma epocale e, nel giro di un paio di anni, sei lì a sbatterti per un’altra, ancora più impattante, il dubbio che pure tu sia alla canna del gas un po’ viene. In questo caso però, altro che maggior parte delle fish, sarebbe un all-inn in piena regola.

Del resto che la struttura stessa della FIFA sia totalmente dipendente dal Mondiale, è lei stessa ad ammetterlo: «La situazione finanziaria del nostro organo dipende dal successo nell’organizzazione della Coppa del Mondo perché quasi tutti i contratti con i partner commerciali sono legati a questo evento», si sottolinea in una nota ufficiale. Proprio per questo, ancor prima della pandemia, è stata stipulata un’assicurazione sulle fasi finali in Qatar che ammonta a 900 milioni di dollari.

L’Al-Thumama Stadium a Doha, Qatar.

Ma allora, dobbiamo chiederci se il calcio mondiale è davvero a pochi attimi dal collasso? Probabilmente no. Anzi, direi proprio di no, soprattutto ad alti livelli. Quel che è certo è la diminuzione della torta. Le fette da spartirsi sono sempre meno e nessuno è disposto a cederne agli altri. Ecco allora che ti trovi con UEFA, FIFA e altre confederazioni una contro l’altra e con i grandi club che provano a creare le proprie leghe esclusive. Il tutto con lobbisti e fondi di speculazione alla finestra, in attesa di potersi inserire.

Ecco perché, a prescindere da tutti i dubbi sulla fattibilità di un Mondiale ogni due anni, a Gianni Infantino andrebbe chiesta un’altra cosa. Tipo spiegare qual è la sua idea futura di calcio. Dai movimenti di base sparsi in tutti i continenti fino ai miliardi dei grandi tornei internazionali. Si vuole costruire uno show che sia sempre più destinato ai clienti alto spendenti, oppure vogliamo vedere nel calcio un reale strumento di avvicinamento e coesione sociale?

Da qui passa tutto, dentro e fuori dal campo. Senza illudersi che il calcio smetta di essere capitalistico. Ma con la lucida speranza che, oltre ai miliardi al top, possa portare qualche frutto commestibile anche nei campetti di provincia. Cosa mettere sotto l’albero di Natale, a quel punto, non sarà più un problema.

© RIPRODUZIONE RISERVATA