Anche questa sera, passando vicino agli ospedali poco prima del tramonto, si intravedono all’interno delle strutture le luci accese. Nella guerra di Crimea, nell’ospedale militare britannico, a illuminare le stanze e i volti dei soldati feriti c’era una lampada sorretta da quella Florence Nightingale che ha dato origine alla professione infermieristica moderna e della quale oggi ricorrono i 200 anni dalla nascita. Il bicentenario si unisce alla commemorazione della Giornata mondiale dell’infermiere, ed è pure questo l’Anno dell’infermiere proclamato dall’Organizzazione mondiale della sanità. È singolare che questa data abbia di fatto cancellato i grandi convegni e dibattiti in programma: l’ombra del Covid-19 toglie luminosità alle narrazioni odierne sui media, anzi, oggi sentir parlare di angeli delle corsie dà molto fastidio, soprattutto a coloro che esercitano questo mestiere, messo fin troppo spesso in secondo piano proprio dalle pianificazioni sanitarie.  

L’Oms riporta questi dati: in tutto il mondo sono quasi 28 milioni gli infermieri, che rappresentano quasi il 60% degli operatori sanitari, ovvero la spina dorsale del sistema sanitario. Ma è altrettanto vero che c’è bisogno di altri 6 milioni di infermieri a livello globale e la pandemia ha reso questo fabbisogno ancora più stringente. Secondo il centro studi della Federazione nazionale ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) in Italia mancano 30mila infermieri nei servizi sanitari territoriali, un dato che andrebbe spiegato bene quando si parla di programmazione sanitaria e di medicina di territorio, che dovrebbe essere al centro della Fase 2. Il numero dovrebbe dare speranza ai giovani che scelgono questa professione e il necessario percorso formativo, eppure secondo la più recente indagine Almalaurea, condotta sui laureati di primo livello nelle professioni sanitarie infermieristiche, se l’oltre l’80 per cento è occupato a un anno dal conseguimento del titolo, il 55,5 per cento ha rapporto di lavoro a tempo determinato, il 18,3 ha intrapreso la libera professione e solo il 20,5 per cento ha un contratto a tempo indeterminato.

La regione Veneto il 7 marzo scorso per far fronte alla carenza di operatori sanitari aveva disposto l’assunzione straordinaria immediata di 525 professionisti a tempo indeterminato. Di questi, il contingente più numeroso è degli infermieri professionali, pari a 279 unità, e 149 operatori sociosanitari, ovvero quelle figure che sono il sostegno necessario per il funzionamento dei reparti. Fa pensare, a più di due mesi dall’esplosione di una pandemia di enorme portata, leggere il report pubblicato lo scorso 8 maggio dall’Inail: nel periodo tra fine febbraio e il 4 maggio i casi di nuovi contagi da lavoro denunciati sono 37.352, quasi novemila in più rispetto alla prima rilevazione del 21 aprile, e la maggiore esposizione al rischio è del personale sanitario e socio-sanitario. I casi segnalati riguardano per il 43,7% gli infermieri, poi gli Oss (20,8%), i medici (12,3%) e gli operatori socio-assistenziali (7,1%). E i decessi sono 129, con una età media di 59 anni.

L’opera che l’artista Banksy ha donato all’ospedale di Southampton, che celebra il personale sanitario

Non dovrebbe essere così, a due mesi e oltre dallo scoppio dell’emergenza e non è vero, osservando proprio questi dati, che gli operatori sono stati riforniti di adeguati dispositivi di protezione individuale; non è vero che oggi si lavora in sicurezza. A fronte di una fornitura da contingentare, di difficile approvvigionamento – ma su questo aspetto è necessario che si faccia chiarezza senza più proroghe e rimpalli – questi lavoratori operano ancora in modo esposto al contagio, non potendo mantenere le distanze precauzionali dai pazienti. Secondo i dati dell’Inail e quelli forniti dalle associazioni di categoria non c’è diffusione del virus tra personale che lavora nei reparti Covid dedicati, proprio perché in possesso di Dpi adeguati. Pensare che le fonti di contagio per gli infermieri siano da attribuire agli altri ambienti frequentati – famiglia, supermercati, luoghi di aggregazione – anche a fronte di questa evidenza sembra fuori di logica, perlomeno sui grandi numeri.

E ora, che la fatidica Fase 2 è cominciata e si parla di territorio e assistenza domiciliare come parole magiche per definire come andrà gestita l’assistenza ai pazienti infetti, vengono in mente le dichiarazioni di questi lunghi anni, spesso bellissime, promettenti, espresse tra convegni, proposte di legge, norme, pronunciate da figure politiche e pure da direttori generali di aziende ospedaliere universitarie, cui sono seguiti tagli, smantellamenti, chiusure di strutture ora riaperte in fretta per i pazienti post-Covid. Chissà se gli stessi saranno capaci di mettere in atto quel Patto per la salute 2019-2021 che mette al centro l’infermiere di famiglia o di comunità e utilizzare l’emergenza per innovare strutturalmente il sistema sanitario.

Ad “alzare la lampada” e ad assistere i malati c’è una mano prevalentemente femminile, pari al 73,2 per cento del personale, a fronte del 26,8 di uomini. Ed è ancora oggi una professione votata al sacrificio, ad una complessa gestione tra vita familiare e lavorativa, in continua formazione e con continui straordinari, spesso non retribuiti, perché da decenni ormai si spremono le forze di queste lavoratrici (sì, parliamo al femminile visti i numeri) invece di provvedere a nuove assunzioni. Florence Nightingale era una donna dal carattere duro, ma oggi sarebbe orgogliosa nel vedere quante donne si dedicano a una professione così stancante. Sarebbe gratificata nel vedere che il suo impegno ha dato opportunità professionale a molte donne che hanno potuto emergere e mettere a frutto attitudini e intelligenza, rispetto a ciò che accadeva due secoli fa. Quando a 24 anni annuncia alla famiglia di voler diventare infermiera, in un’epoca in cui era sinonimo di lavoro da sguattere, specie per una ragazza di buona famiglia, non poteva sapere Florence cosa sarebbe poi nato dalla sua esperienza nel dirigere un ricovero per gentildonne e sui campi di battaglia, tra feriti in condizioni disumane, che si contagiavano l’un l’altro, in un contesto in cui i rifornimenti erano rallentati per colpa di regolamenti assurdi (e questo ci ricorda qualcosa). Il quotidiano “The Times” le associò il soprannome di Signora della lampada, molti parlarono di un angelo. Però quell’angelo tornato in patria chiese al governo che si indagasse sull’assistenza medica militare e pretese una riforma completa della sanità militare. Non smise di fare pressione sulla politica, raccolse dati clinici insieme a un suo gabinetto di sostenitori e rese le statistiche comprensibili con grafici facilitati.

Florence Nightingale nel 1860

E poi nel 1860 (160 anni fa) fondò la Scuola di formazione in infermieristica all’interno dell’ospedale St Thomas di Londra, che oggi porta il suo nome (The Florence Nightingale school of nursing and midwifery del King’s College), grazie al quale per la prima volta alle infermiere si riconobbe una professionalità distinta da quella medica ma altrettanto importante. L’anno dopo si diplomò la prima infermiera americana, che sarà consulente agli Stati dell’Unione durante la sanguinosa guerra civile contro la Confederazione.

«Il primo requisito di un ospedale dovrebbe essere quello di non far del male ai propri pazienti» è uno dei pensieri di questa tenace visionaria. Sarebbe da aggiungere che nemmeno chi ci opera dovrebbe sentirsi minacciato dal proprio lavoro e dalla miopia di chi ha deciso che si può continuare a mandare gli infermieri in battaglia, quando si tratterebbe in realtà di persone che vogliono soltanto poter fare il proprio mestiere.