In un tempo che divora tutto alla velocità di uno scroll, c’è ancora spazio per le storie lente, lavorate come un impasto. “Pane”, l’ultimo romanzo di Angelo D’Andrea, non è solo un titolo evocativo, ma un simbolo narrativo forte: la semplicità apparente di un alimento universale che diventa metafora del fare, del curare, dell’attendere. Un libro che sorprende per la densità del linguaggio, la cura cesellata delle frasi, ma anche per la sua capacità di mettere in scena, sotto forma narrativa, alcuni dei nodi più sensibili del nostro presente. Come quello della reputazione digitale.

D’Andrea, leggere il suo libro è stata una rivelazione. Con “Pane” ho scoperto una voce letteraria molto precisa, un lavoro profondo sulla lingua, uno stile limpido ma denso. E soprattutto una trama che tocca temi attualissimi, come la reputazione sui social, con grande lucidità.

«È una presentazione generosa, ma la tua lettura ha colto pienamente il senso del lavoro che c’è stato dietro: “Pane” è un libro che lavora su più livelli, e il linguaggio è uno di questi. Ma hai centrato anche un nodo centrale della storia: la reputazione.»

Sì, perché quello è un capitolo chiave…

La copertina di “Pane” di Angelo D’Andrea

«Quel passaggio è nato da uno studio che ho fatto tempo fa, quando mi è stato chiesto di scrivere per altri su come l’uso impulsivo dei social network possa influenzare — e in certi casi distruggere — la vita professionale e personale delle persone.

Parlo di situazioni reali: manager, politici, imprenditori che, per un commento scritto con leggerezza, magari in vacanza o durante un evento, si sono trovati travolti da una tempesta mediatica. La rete è rapida, spesso spietata. E le conseguenze, a volte, sono disastrose.»

Nel romanzo, il protagonista è proprio una “vittima” di questo meccanismo.

«Esatto. È un giovane terapeuta, appassionato di panificazione, che ha costruito nel tempo una piccola notorietà online legata proprio al suo modo di intrecciare il lavoro clinico con quello simbolico del fare il pane. Ma basta un fraintendimento, un messaggio letto male o strumentalizzato, per scatenare una valanga. E quella valanga lo travolge. Gli fa perdere credibilità, clienti, amicizie. È una caduta verticale. E quello che più lo ferisce è proprio l’essere stato attaccato da chi, fino a poco prima, lo sosteneva.»

C’è un altro passaggio interessante, in cui racconta come la rete reagisca anche alle immagini più innocue…

«Sì, è un’anticipazione narrativa di quello che succederà dopo. Il protagonista pubblica una foto tenera e innocente, commentando con affetto una coppia che sta insieme da cinquant’anni. Alcuni utenti reagiscono con cuoricini, altri con cinismo e basse insinuazioni. È una riflessione su quanto ogni contenuto, anche il più semplice, venga ormai sottoposto a una miriade di letture, spesso distorte. E su come la rete amplifichi tutto, anche il sospetto. Piuttosto che parlare e avere una relazione, una comunicazione con le persone che tu hai attorno, sia meglio rifugiarsi nei libri. Non lo penso. Ma credo — e lo dico sia come laureato in Scienze Psicologiche sia come scrittore — che la letteratura possa essere una forma di “ponte”: un ponte tra te e te stesso, ma anche tra te e gli altri. Un varco per entrare in mondi che sembrano lontani e che invece ti assomigliano.»

Nel suo romanzo, questo ponte è espresso anche in modo pratico. Penso a come il protagonista legge ad alta voce dei brani a persone fragili, in difficoltà.

«È uno degli aspetti che più mi stanno a cuore. Perché leggere insieme — o leggere per qualcuno — è un atto profondamente umano. È un modo di prendersi cura. Non è solo “trasmettere” un contenuto: è mettere in campo tempo, attenzione, presenza. È un po’ come fare il pane, se ci pensi. Anche lì c’è un gesto lento, ripetuto, concreto. È qualcosa che si fa con le mani, ma anche con la testa e con il cuore.»

Foto da Unsplash di Nadya Spetnitskaya

E in entrambi i casi — pane e parole — c’è un aspetto di dono. Il suo protagonista, come ha detto prima, non fa mai il pane per sé. Lo fa per gli altri.

«Sì, ed è stata una cosa che mi hanno fatto notare i lettori. Non ci avevo pensato fino in fondo mentre scrivevo. Ma in effetti è così. Lui lo fa per gli anziani vicini, per il gruppo che segue, per i bambini… È il suo modo per restare connesso. E lo fa anche come gesto riparativo. Per sé, prima di tutto. Come ti raccontavo, anche per me è stato così: ho iniziato a fare il pane in un momento complicato, in cui sentivo il bisogno di rassicurare i miei figli sul fatto che, nonostante tutto, io c’ero. E che ci sarei stato. Il profumo del pane, a casa, era un modo per dire: “Sono qui. E ci sono per voi”.»

Ed è da lì che nasce, in fondo, anche la scrittura del libro.

«Esattamente. Il pane ha cominciato a richiamare parole. Non cercavo un romanzo, non avevo in mente un progetto preciso. Ma man mano che facevo il pane, quelle parole arrivavano. E mi sono reso conto che potevano diventare una storia. Una storia in cui il pane fosse non solo un elemento simbolico, ma anche una vera e propria struttura narrativa. Scrivere è un po’ come fare il pane. Parti da pochi ingredienti, semplici, ma fondamentali. Li devi trattare con rispetto, con cura, con pazienza. E poi aspetti. C’è un tempo biologico e poetico che non puoi forzare. Se forzi, non cresce. E non funziona.»

E nel suo caso, il pane è diventato anche una sorta di indagine antropologica: nel libro cita storie, ricette, tradizioni…

«Sì, mi sono appassionato. E ho scoperto, o riscoperto, che il pane è presente ovunque, in tutte le culture, con forme e significati diversi. È un alimento ma è anche un rito, una narrazione collettiva. Ho letto testi storici, tra cui uno bellissimo pubblicato nel 1944 da un autore ebreo tedesco rifugiato a New York, intitolato I seimila anni del pane.

Racconta come questo cibo semplicissimo abbia accompagnato tutta la storia dell’umanità. Mi ha colpito moltissimo. E ho sentito che questa ricerca poteva alimentare anche la mia narrazione. Perché c’era una corrispondenza tra ciò che stavo vivendo, ciò che stavo scrivendo e ciò che stavo leggendo.»

Lei ha parlato della potenza della parola scritta e di come la lettura condivisa possa attivare dinamiche di trasformazione. In questo senso, la biblioterapia diventa anche un’esperienza collettiva, giusto?

«Esattamente. Non sto dicendo “chiudetevi in una stanza a leggere”, sto dicendo che proprio la comunicazione nel gruppo, la conversazione profonda, il far parte di una comunità, può essere potentemente stimolata dalla lettura condivisa. Quando prendi un libro sincero, autentico, dove senti quasi il sudore e il sangue dello scrittore, anche se è morto da cent’anni, e lo metti al centro di un cerchio, qualcosa succede. È come se anche da fermi, ognuno diventasse un piccolo artigiano: si mettono all’opera, dentro di sé, a cercare senso. È un lavoro invisibile ma potentissimo.»

E lo scrittore, allora, diventa quasi un facilitatore in questo processo?

«Sì. Lo scrittore ha, o può avere, una facilità nel linguaggio che non è da tutti. Molte persone vivono emozioni forti, complesse, ma faticano a esprimerle. Non trovano le parole. Ecco che allora la buona letteratura entra in gioco: ti dà le parole che non avevi, che non riuscivi a trovare. Non per spiegarti qualcosa in modo didascalico, ma perché raccontando ti permette di fare esperienza del linguaggio, ti apre, ti sblocca. È un servizio prezioso. Come un idraulico: arriva, fa il suo lavoro con naturalezza, e di colpo le cose iniziano a funzionare. Lo scrittore fa lo stesso sul piano dell’immaginazione e della parola.»

A proposito di immaginazione: lei prima diceva che per lei è sempre stato facile creare una storia a partire da pochi elementi. È lì che ha capito che doveva mettere questa sua dote al servizio degli altri?

«All’inizio mi stupivo quando mi chiedevano “ma come hai fatto a immaginare questa storia?”. Per me era naturale. Bastavano tre oggetti, e la mia testa già li metteva in relazione, creava un mondo. Poi ho capito che per molti non è così. E allora mi sono detto: se questa mia qualità può essere d’aiuto a qualcuno, se può far vivere un’esperienza che da soli non saprebbero vivere, allora è un dovere condividerla. È un gesto di cura. Come io chiamo un artigiano per fare qualcosa che non so fare, qualcun altro può trovare qualcosa di utile in quello che scrivo.»

Foto da Unsplash di Kate Remmer

Immagino che questo pensiero l’abbia aiutata anche nei momenti di crisi, in quei dubbi che ogni scrittore prima o poi affronta…

« A volte ti chiedi: ma che senso ha scrivere oggi, con tutto quello che succede nel mondo? Guerre, ingiustizie, dolore… e io sto qui a inventare storie. Ma poi mi ricordo che Joyce non sapeva, cent’anni fa, che le sue parole un giorno avrebbero aiutato me. E allora mi dico: magari anche quello che scrivo oggi servirà, un giorno, a qualcuno. Forse ai miei figli. E questo dà senso al mio stare qui, alla scrivania.»

Nel suo romanzo, il protagonista affronta una crisi profonda, che lo costringe a ripartire da zero. Ma proprio da quella crisi emerge una nuova consapevolezza. È una storia di rinascita?

«Decisamente. Il protagonista subisce una caduta, la sua reputazione viene demolita, ma proprio da lì trova la forza per reinventarsi. Non è un processo facile, ovviamente, ma è autentico. Spesso cresciamo proprio quando veniamo messi in discussione. Quando la vita ci costringe a perdere tutto quello che ci dava sicurezza. In quel momento, il dolore è inevitabile, ma se riesci a restarci dentro, a non scappare subito, allora puoi ripartire, magari più forte di prima.»

Nel romanzo c’è anche un passaggio in cui il protagonista cambia identità, si spoglia dei panni abituali e ne assume di nuovi. È una sorta di fuga o un passaggio necessario per ripartire?

«È entrambe le cose. All’inizio, sì, è anche una fuga. Lui scappa da un senso di vuoto enorme, da un dolore che non riesce a gestire. Ma nel farlo, nel cambiare vita, scopre una nuova via per affrontare quel vuoto. È come indossare una maschera, ma non per nascondersi: per trovare una nuova distanza da sé, una nuova prospettiva. La maschera è uno strumento per attraversare il dolore e poi tornare. Tornare diversi. Più consapevoli.»

E a questo ritorno contribuisce anche una figura femminile molto importante nel libro: Emma. Che ruolo ha per lei questo personaggio?

«Emma è centrale. È a suo modo una co-protagonista, non un personaggio di contorno. La loro relazione è complicata, ma profonda. Lei rappresenta la possibilità del dialogo autentico, dello specchiarsi nell’altro. È anche lei, in fondo, in un processo di trasformazione. Il loro incontro è imperfetto, ma necessario. Emma è il volto di chi resta, di chi accoglie, di chi mette in discussione e però non smette di esserci. È con lei che il protagonista può finalmente guardarsi davvero. E forse, ricominciare.»

Il romanzo è intenso, coinvolgente, ma anche pieno di grazia. Una grazia che nasce dalla cura che ha per i dettagli, per le relazioni, per le emozioni non dette. E da una fiducia rara, oggi, nei piccoli gesti.

« È la fiducia che io stesso sto cercando, ogni giorno. E forse è questo che la scrittura cerca di fare: afferrare qualcosa che ci sfugge, e che pure ci appartiene profondamente.

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