Torniamo sul tema delle migrazioni per (ri)accendere un faro sulla questione ancora non risolta dei rapporti tra UE, Italia e Libia. O, come sarebbe più preciso dire, le due parti opposte della Libia, dove il governo riconosciuto opera da Tripoli, mentre la zone orientale è sotto il controllo di un governo “ombra” capitanato da Khalifa Haftar.

Come riportato nel recente articolo sul tema, il mediterraneo orientale è una delle rotte più frequentate dai migranti irregolari, che siano in fuga da Paesi in guerra (Siria, Afghanistan, Iraq) o in profonda crisi economica (Egitto, Pakistan e Bangladesh); risulta di particolare importanza per l’Italia, con quasi tre quarti di tutti gli arrivi per mare verso il nostro Paese che passano da Libia e Tunisia.

Una situazione poco chiara

Da molti anni, le organizzazioni umanitarie come Amnesty International o Human Rights Watch riportano di abusi, maltrattamenti e illegalità diffusa nei recuperi forzati effettuati dalle autorità costiere libiche, di detenzione in campi profughi al limite del disumano, di lavori forzati e violenze di ogni genere.

A queste denunce si è recentemente aggiunta l’inchiesta di un gruppo di giornalisti investigativi provenienti da testate come Al-Jazeera, Le Monde, Malta Today e Der Spiegel, oltre a organismi internazionali per il giornalismo “responsabile”, come Lighthouse Reports e il siriano SIRAJ.

Una lunga collaborazione

L’Unione Europea e le autorità governative libiche riconosciute dall’ONU lavorano da molti anni sul tema delle migrazioni. Nel giugno 2018 la Commissione europea finanzia la suddivisione del Mediterraneo in zone SAR (search and rescue, ovvero ricerca e salvataggio), con la creazione di una zona di competenza esclusiva della guardia costiera libica. Con l’occasione vengono spesi milioni di euro per fornire navi ed equipaggiamenti (sì, anche armi), oltre a mesi di addestramento alle truppe designate.

Solo due anni più tardi cominciano, però, a uscire le prime notizie di detenzione illegale e condizioni inumane: sovraffollamento, violenze ripetute, abusi e schiavitù sessuale, lavori forzati.

L’ONU lancia un appello alla UE, invitando l’Europa a “sospendere il sostegno agli attori libici coinvolti in crimini contro l’umanità” verso migranti e profughi. La scelta della parola “attori” non è casuale, in quanto l’ONU si riferisce sia alle strutture governative ufficiali, sia al nascente business orientale.

La UE ignora tale ammonimento e prosegue nella sua stretta collaborazione, a suon di finanziamenti e vertici multilaterali. Si sposta addirittura a oriente, come emerge dalla recente inchiesta, verso la fazione di governo capeggiata dal feldmaresciallo Haftar, che sarà anche non riconosciuta ma viene evidentemente ritenuta molto efficace.

La brigata Tarek Bin Zayed

Se i Wagner sono ormai tristemente conosciuti da tutti, tra teste usate come palloni e voli segreti che esplodono in cielo, i loro sodali libici lo sono forse meno. Eppure, a giudicare da alcuni video pubblicati con il nickname TBZ, lo schema sembra proprio lo stesso. Disprezzo per la vita umana, violenza gratuita usata come un vanto, ricchezza ostentata. C’è pure il video di un gioioso barbecue sul ponte mentre centinaia di profughi vengono lasciati senza cibo né acqua sotto coperta.

Amnesty International ha documentato numerose violazioni dei diritti umani da parte delle milizie tribali che spadroneggiano nella Libia orientale, coalizzate nel cosiddetto Esercito Nazionale Libico (Libyan National Army – LNA). La più attrezzata e importante di queste è proprio TBZ, tanto che Haftar vi ha posto come leader il figlio Saddam.

Le milizie si occupano di traffici di ogni genere, dal contrabbando di petrolio e carburante, al traffico di droga e di esseri umani. Nonostante denunce ed evidenze per tortura, schiavitù, omicidio, è con queste persone che ora Frontex appare coordinare le azioni di recupero.

L’esito dell’inchiesta

Il gruppo di investigatori ha lavorato per mesi, con ricerche documentali e lunghe interviste con testimoni, esperti in diritto internazionale e cercando ove possibile un confronto con le autorità accusate. Sono state analizzate registrazioni, ascoltate le conversazioni tra autorità dei vari Paesi, tra aeronautica e uomini in mare.

Oltre alle testimonianze agghiaccianti dei sopravvissuti che, seppur nella materiale impossibilità di verifica, si mantengono tutte su uno schema di eventi coerente e vengono pertanto considerate attendibili.

È emerso che in numerose circostanze, durante tutto il 2023, le coordinate GPS rilasciate dall’agenzia di frontiera europea Frontex, relative a imbarcazioni in difficoltà, per qualche motivo sono finite nelle mani della brigata TBZ e non della Guardia costiera ufficiale.

I successivi recuperi hanno riportato sulla terra libica centinaia di profughi e migranti, che sono stati picchiati, costretti a lavorare gratuitamente per imprenditori locali o a pagare un riscatto per potersi affrancare. Un traffico molto ricco, che si alimenta da solo se è vero che a organizzare le partenze sono gli stessi che effettuano i recuperi in mare.

Foto da Pixabay

Un esempio basterà

Il 26 luglio 2023, Frontex emette un mayday per una imbarcazione partita due giorni prima dalla Libia orientale, ancora in SAR libica ma molto vicina al confine con le acque maltesi. Frontex dichiara di aver agito in quanto «il natante si trova molto lontano dalla costa, appare sovraccarico e sprovvisto di salvagenti». Dovrebbero intervenire le autorità libiche ufficiali, per competenza, o la Guardia costiera maltese, per vicinanza; le immagini recuperate mostrano anche due navi mercantili nelle vicinanze.

Nessuno tra tutti questi mostra di cambiare la propria rotta dopo l’allerta di Frontex, come non l’avessero ricevuta. Invece, interviene la grande nave di TBZ, sette ore dopo, quando i migranti sono già in SAR maltese. Caricano i profughi e tornano al porto di Juliana, a Bengasi, dove vengono reclusi in un hangar di circa 50 metri di lunghezza, dove sono già stipate centinaia di persone. Seguiranno atrocità, furti, violenza e morte. Dopo decine di giorni di torture, fisiche e psicologiche, perfino la schiavitù offre una piccola speranza.

La legge è uguale per tutti

Secondo Nora Markard, l’esperta di diritto internazionale coinvolta nell’inchiesta, Frontex e i centri di coordinamento nazionali per il recupero dei migranti non dovrebbero fornire informazioni a soggetti libici non ufficiali, specie perché è noto a tutti di chi si tratta e che cosa fanno. Markard paragona gli interventi di TBZ “permessi” da Frontex a «una forma di pirateria, dove non si parla di salvataggio ma di rapimento».

Il diritto internazionale prevede infatti che i rifugiati non possano essere respinti verso Stati considerati insicuri, dove sarebbero a rischio della vita o di violenza. La Libia, specie nelle mani di spietati miliziani che dividono le proprie basi e addestramento con i Wagner, non sembra proprio essere un “porto sicuro”, per usare un termine che piace alla stampa italiana (assente, purtroppo, dal pool d’inchiesta).

Sotto gli occhi di tutti

Eppure l’Europa lo sa. Conosce TBZ e chi la comanda, sa come opera e con quali finalità. Conosce le relazioni strette con i mercenari russi e sudanesi, da cui ricevono armi e uomini. Incalzato dalle domande dei giornalisti, Peter Stano, portavoce della Commissione europea, ha dichiarato che la UE non considera TBZ un partner “appropriato” ma sottolinea che, a differenza di Wagner, non è una “organizzazione terrorista”.

L’Europa non solo evita di prendere posizioni, addirittura sembra ci siano evidenze chiare di tentativi di “regolarizzare” la collaborazione con il gruppo armato, come riportato da Amnesty. Ci sono diversi casi in cui Frontex definisce TBZ nel rapporto ufficiale come Guardia costiera libica, pur sapendo benissimo chi ha accolto davvero la richiesta di intervento.

A fronte di queste prove, delude la laconica risposta di Frontex che ai giornalisti dichiara il suo «impegno a lavorare a stretto contatto con i centri di salvataggio e le relative autorità competenti, con l’obiettivo di salvare vite in mare». In mare, mica nei centri libici.

Immagine da Pixabay generata con l’intelligenza artificiale

E l’Italia non resta a guardare

Mentre accadono tutte queste cose nel Mare Nostrum, mentre le imbarcazioni restano senza soccorso o ne ricevono di illegale, Malta e Italia effettuano e ricevono visite ufficiali con i massimi esponenti del governo che non esiste. D’altra parte, nel 2023 il numero dei migranti sbarcati in Italia e partiti dalla Libia sono sei volte quelli dell’anno precedente e la quota partita dalle regioni orientali del Paese ha ben presto sorpassato quella dei profughi da Tripoli. Qualcosa insomma bisogna fare.

Verificare le condizioni dei campi, accertare responsabilità e colpire chi interviene illegalmente non appare da subito la giusta strategia. Meglio invece mandare un nuovo ambasciatore in Libia, accogliere Haftar a Roma, restare su toni amichevoli. Siamo italiani, fatti per trovare compromessi, ricercare soluzioni. Nascondere la testa nel deserto e il sangue sotto il tappeto.

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