Nei giorni scorsi si sono susseguiti diversi avvenimenti che hanno riportato la Libia sulle cronache internazionali. Dopo gli approfondimenti sulla situazione politico-economica già pubblicati, torniamo a parlare del Paese che più di tutti collabora con la UE per la gestione e il contenimento dei flussi di migranti in rotta sui barconi attraverso il Mediterraneo.

Cessate il fuoco

Nel 2019-2020 il Paese ha vissuto un periodo estremamente violento, con l’assedio di Tripoli da parte delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, conclusosi grazie alla creazione, sostenuta dalla platea internazionale, del “Comitato militare congiunto 5+5”, organismo composto da delegati di entrambe le parti contendenti. I civili sono stati colpiti sia dagli attacchi dell’Esercito Nazionale Libico che per la distruzione di scuole, strutture sanitarie e per le mine antiuomo lasciate dai mercenari anche nelle aree residenziali. Inoltre, a causa del conflitto, le attività di export petrolifero sono state bloccate per quasi tutto il 2020, portando la produzione da 1,2 milioni a 72.000 barili al giorno. Per un Paese che conta sul settore oil&gas per oltre il 60% del PIL e circa il 90% delle entrate fiscali, una perdita stimata di circa 10 miliardi di dollari è un duro colpo, con pesanti conseguenze sui servizi alla popolazione.

I mercenari stranieri

L’accordo di cessate il fuoco del 23 ottobre 2020 prevedeva che tutti i mercenari stranieri lasciassero la Libia entro 90 giorni ma solo negli ultimi giorni qualcosa inizia muoversi davvero. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) ha reso noto che un primo aereo con 300 combattenti siriani è atterrato in Turchia, tappa obbligata per il rientro in patria, anche se forse è solo un ricambio di personale. Si tratta di combattenti addestrati dalla Turchia, che garantisce loro un passaporto turco, incentivi per i famigliari e uno stipendio mensile che il SOHR quantifica in circa 2.000 dollari. Altra presenza stabile è il famigerato gruppo Wagner, l’esercito privato russo che da anni è operativo in diverse regioni africane, noto per la facilità con cui confonde i militanti nemici con semplici civili.

La Missione di inchiesta delle Nazioni Unite

È stato rilasciato il 4 ottobre scorso un rapporto degli esperti ONU per i diritti umani Mohamed Auajjar, Chaloka Beyani e Tracy Robinson, basato su lavoro d’inchiesta in Libia, Tunisia e Italia, su centinaia di documenti e la testimonianza di oltre 150 persone. «Le nostre indagini hanno evidenziato che tutte le parti in conflitto, inclusi Paesi terzi, combattenti stranieri e mercenari, hanno violato il diritto internazionale umanitario, in particolare i principi di proporzionalità e ragionevolezza, e alcune hanno commesso crimini di guerra», ha affermato il presidente della Missione, Auajjar. Vengono citati numerosi casi di tortura, il reclutamento di bambini soldato e uccisioni di massa, come quelle relative a zone agricole ai margini di Tripoli, dove nei mesi sono state recuperate 200 salme non identificate, in 25 forsse comuni, con segni evidenti che rimandano a percosse prolungate mentre si trovavano con mani e piedi legati.

Tra le violazioni documentate dalla Missione ONU, ci sono anche quelli che potrebbero essere considerati crimini contro l’umanità: detenzioni arbitrarie, violenza in carcere e contro migranti e sfollati interni nei centri di detenzione dei trafficanti. Ci sono gruppi etnici che hanno dovuto lasciare le loro case e vivono in situazione di abuso, senza che le autorità abbiano tentato di garantirne la sicurezza o favorito il ritorno a casa “in violazione dei propri obblighi ai sensi del diritto internazionale”. Non può mancare un capitolo sulla guardia costiera libica, equipaggiata dall’Europa per controllare gli sbarchi, che viene accusata di maltrattamenti, abusi e di averli consegnato a centri di detenzione dove si praticano apertamente tortura e violenza sessuale.

«Le violazioni contro i migranti sono commesse su larga scala da attori statali e non statali, con un alto livello di organizzazione e con l’incoraggiamento dello Stato. Tutto questo è indicativo di crimini contro l’umanità”, ha affermato Chaloka Beyani. Le autorità giudiziarie libiche si sono impegnate ad indagare sui casi riportati dalla Missione d’inchiesta, i cui autori o responsabili vengono identificati con precisione in un elenco che non viene per ora diffuso.

Lo stallo politico

Ci sono voluti dieci anni, nel febbraio 2021, per riuscire a nominare alcune autorità esecutive temporanee che traghettino il Paese a libere elezioni, tra cui Mohamed al-Menfi come capo del Consiglio presidenziale e Abdulhamid Dabaiba come primo ministro. L’attuale assetto istituzionale però non facilita il lavoro: si assiste a un palleggio di ordini esecutivi, leggi e decreti spesso in netta contrapposizione tra loro. Facciamo ordine:

17 agosto 2021: viene approvato un disegno di legge che dà al popolo libico il diritto e dovere di eleggere direttamente il Presidente, di cui però non vengono esplicitati poteri e condizioni per la candidatura.

9 settembre: Aguila Saleh, presidente del Parlamento, con sede a Tobruk, firma una legge presidenziale, approvata dalla commissione elettorale e quindi non definitiva, inviata all’Alta commissione per le elezioni nazionali e notificata all’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Jan Kubis. Tale testo viene rigettato dall’Alto Consiglio di Stato, che si trova a Tripoli, in quanto favorisce di fatto la candidatura del generale Haftar. Vi si legge infatti che “un militare può candidarsi alla carica di presidente a condizione che smetta di esercitare le sue funzioni tre mesi prima della data delle elezioni” e che “in caso di mancata nomina, torni al suo lavoro precedente”. Una specie di salvavita per il generale, prontamente dimessosi da ogni incarico militare.

19 settembre: l’Alto Consiglio di Stato (di nuovo a Tripoli) stabilisce che il potere legislativo sarà a mani del “Consiglio della Nazione”, una sorta di parlamento bicamerale, con Camera dei Rappresentanti e Senato, i cui membri dovranno essere cittadini libici di fede musulmana, di età non inferiore a 40 anni. Tale Consiglio avrà un mandato della durata di quattro anni, al termine dei quali non sarà possibile alcuna estensione. Il potere esecutivo viene affidato al governo e al Consiglio presidenziale, formati anche qui da libici di fede musulmana senza precedenti penali. Inoltre, si tiene a precisare, “nessun ufficiale militare potrà candidarsi alla carica di presidente, anche se dimessosi da meno di due anni”.

4 ottobre: torniamo a Tobruk, dove la Camera dei Rappresentanti, a dispetto delle critiche, approva in via definitiva la legge elettorale divulgata il 9 settembre, violando apertamente gli Accordi di Skhirat del 2015, secondo i quali “Camera dei Rappresentanti e Alto Consiglio di Stato devono collaborare e concordare in tutte le questioni principali della vita del Paese”.

Nella millenaria storia della Libia, il prossimo capitolo sembra ancora tutto da scrivere e troppe mani vorrebbero poter scrivere la parola fine. L’accanimento, sia da parte dei politici delle opposte fazioni che degli organismi internazionali verso l’unità di un Paese diviso fin dalle radici, non è mai auspicio di soluzioni rapide e condivise. E nel frattempo, migranti e sfollati continuano a morire, se in mare o nei lager libici a questo punto conta davvero poco.

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