Scriveva pochi giorni fa Maurizio Vitali, a proposito delle dimissioni del ministro della Pubblica Istruzione Fioramonti (legate al mancato stanziamento di 3 miliardi per l’istruzione) che una delle grosse questioni su cui nessuno ancora si è interrogato è: servono più soldi, ma per farne cosa?

Renzo Tramaglino

Ora, la questione si ripropone con due ministri per un dicastero con le fattezze di un mostro bicefalo; i due, sicuramente, finiranno col beccarsi come i capponi di manzoniana memoria nella spartizione delle stesse risorse del predecessore. Ma la questione rimane sul tappeto e Fioramonti l’aveva compresa: può la scuola italiana permettersi di mantenere lo status quo? Può il Paese accettare che la scuola, invece che motore del cambiamento, sia specchio fedele del mesto declino?  

E poco importa, di fatto, il costante calo della spesa pubblica dell’istruzione, in controtendenza rispetto all’Europa. Il punto è che gran parte del budget del Miur è per il pagamento degli stipendi del personale scolastico (amministrativi, Ata, docenti…). Briciole per l’innovazione e il merito (e qui basti vedere come viene distribuito il bonus merito docenti – recentemente modificato – introdotto dalla legge 107: a pioggia, o con autocertificazione!). Che fare? Licenziare docenti e aumentare la quota per l’innovazione (ma chi la farà, allora?) o aumentare i fondi per la scuola (togliendoli da dove, considerando, per esempio, che 1 casco 1 di  un F35 costa 400.000$?).

Ci sono, evidentemente, delle scelte forti da fare. In ordine sparso:

  • I docenti hanno un’età media molto alta; sono poco tecnologici, spesso anche per formazione culturale (stiamo parlando di personale nato e formato nel secolo scorso) e di giorno in giorno più in difficoltà nell’empatia con generazioni sempre più antropologicamente distanti. Non hanno alcuna prospettiva di carriera, la motivazione del loro lavoro è quasi tutta personale. La loro formazione ideologica, acquisita durante la loro formazione, è spesso in contrasto con l’attuale sistema economico e di pensiero. In più, non tutti sono mossi da una bruciante mission interiore, poiché spesso questa professione è stata utilizzata come valvola di sfogo per situazioni sociali o di genere che nulla hanno a che spartire con la cultura. Conseguenza: le rivoluzioni, lo dice la storia, le fanno i popoli giovani: non saranno quindi i docenti a guidare il cambiamento.
  • Il cambiamento nasce anche da una svolta nella didattica. Tutte le innovazioni didattiche, come ad esempio la “classe rovesciata” richiedono meno lezione frontale, più ricerca, studio e attività responsabile e autonoma dell’alunno. Ma per ottenere tutto questo, ci vogliono spazi fisici e mentali nuovi.
    Spazi fisici, ovvero scuole belle da vivere: come si fa ad insegnare storia dell’arte, la bellezza, il senso della conservazione dei beni culturali in edifici che sembrano scampati per un pelo a un bombardamento alleato? Servono luoghi moderni, aperti, in cui gli alunni si possano muovere liberamente, magari sul modello finlandese. Invece, molte nostre scuole sono palazzi d’epoca, comodi solo per giovin signori con una folta servitù; oppure, blocchi di cemento anni ’70 convertibili con bassa spesa in carceri.
    Spazi mentali, perché l’attenzione dei nostri giovani diventa sempre più labile per una comunicazione incessante e velocissima, per la pluralità delle fonti spesso in contemporanea (web, tv, giochi online, vita online…). Per lo sviluppo di un pensiero critico, strutturato e consapevole non serve tempo, serve il tempo per fermarsi, ragionare, immaginare, confrontare, ricercare, rielaborare. Servono spazi lontani dal caos della quotidianità, luoghi in cui i ragazzi possano stare, mangiare, studiare, scontrarsi (e innamorarsi: perché no?) in sicurezza come cittadelle della cultura. E staccati, almeno un po’, dal web.
  • Per fare tutto questo, ci vuole un nuovo patto con le famiglie: fiducia e responsabilità. Per un progetto come questo, i ragazzi sopra i 14 anni devono essere liberi di muoversi, spostarsi e pensare liberamente, non come oggi che per uscire da scuola a 17 anni serve un genitore che li prelevi di persona con carta d’identità, come una raccomandata in posta. E responsabili anche nel pagare le loro mancanze.
  • Una scelta di campo chiara: la scuola deve formare cittadini o lavoratori? Non è affatto la stessa cosa. Basti pensare a questioni, per esempio, come la politica in classe e cos’è accaduto recentemente a Palermo.

Quanto costa tutto questo? Moltissimo, e serve una programmazione almeno ventennale (pensiamo solo ai cantieri, oltre che alla formazione del personale). Non bastano quattro spiccioli arraffati in CdM. Ma l’assenza di risorse è figlia dell’assenza di dibattito, che è la cartina tornasole del disinteresse.

Ecco perché, alla fine della fiera, la scuola italiana non sarà mai volano del cambiamento ma solo il triste specchio di un paese al crepuscolo: per cambiare serve coraggio, visione a lungo termine, una buona dose di incoscienza, brivido per il rischio. Gli anziani non rischiano. I giovani politici di oggi, invece, sanno a mala pena badare a loro stessi e non durano nemmeno un’estate. Chi dovrebbe guidare il cambiamento?

© RIPRODUZIONE RISERVATA