La notizia sugli abusi e le violenze perpetrati ai danni di migranti, senza dimora e tossicodipendenti da parte di alcuni agenti della questura di Verona ha ormai fatto il giro dell’intero Paese. Ma come ha reagito la città di Verona di fronte a notizie di reato così gravi e preoccupanti?

Le 169 pagine della misura cautelare, depositata il 26 maggio scorso dalla giudice per le indagini preliminari Livia Magri, non lasciano spazio ad alcun dubbio: nell’ambito dell’esercizio della loro funzione di pubblica sicurezza, alcuni agenti della questura di Verona hanno commesso, in maniera reiterata, reati qualificati in torture, maltrattamenti, lesioni, oltre che omissioni in atto d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. Per tre aggressioni viene contestata anche l’aggravante dell’odio razziale.

Cinque di loro, poliziotti in servizio alle Volanti della Questura, sono stati sottoposti alla misura restrittiva degli arresti domiciliari, e per uno di loro, Alessandro Migliore, la giudice ha chiesto l’applicazione della misura di custodia cautelare in carcere. Altri 17 agenti risultano attualmente indagati e devono rispondere dei reati di falso e omissioni in atto d’ufficio.

Un modus operandi consolidato

Le vittime finora accertate sono migranti, senza dimora e tossicodipendenti, soggetti dunque particolarmente fragili, che senza aver commesso alcun reato venivano arbitrariamente prelevati dagli agenti per l’identificazione e condotti nella stanza della questura che la stessa gip definisce «denominata cinicamente “l’acquario”, per la presenza di una parete in plexiglass attraverso la quale il personale di polizia era ed è in grado di osservare i “pesci” rinchiusi ».

Per questo i pm Carlo Boranga e Chiara Bisso scrivono nella richiesta di misure cautelari al gip: «Tutti gli imputati hanno tradito la propria funzione comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità, commettendo reati piuttosto che prevenirli», e spiegano che le misure cautelari, comprese le interdizioni, sono necessarie perché «ci troviamo di fronte a un modus operandi consolidato, a una prassi, ampiamente diffusa, di percuotere i soggetti trattenuti in Questura nei corridoi o nel cosiddetto tunnel, luoghi privi di impianti di videosorveglianza”».

Ed è sufficiente uno tra i vari episodi accertati per confermare la gravità dei fatti contestati agli agenti: « (…) in concorso tra loro, in qualità di Agenti e Ufficiali di Polizia Giudiziaria in servizio presso l’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico della Questura di Verona, sottoponevano a misure di rigore non consentite dalla legge D.M., arrestato, di cui essi avevano la custodia, e in particolare lo prendevano a calci quando esso era caduto a terra una volta uscito dall’automezzo, in Questura, e dunque uno tra loro proferiva le parole “so io come svegliarlo” e alla presenza degli altri, che aderivano moralmente all’azione, urinava sull’arrestato. Con l’aggravante di aver agito in sei persone, e con l’aggravante di aver profittato di circostanze di luogo e di persona tali da ostacolare la privata difesa, avendo agito contro soggetto inerme, disteso a terra, in preda a difficoltà respiratorie, intimidito da un uso deviato di poteri autoritativi nei suoi riguardi, e per tali ragioni inibito dal porre in essere una reazione difensiva. (…)».

Le reazioni in città

Prevedibilmente, la vicenda presta al fianco a strumentalizzazioni politiche legate al presupposto dovere di tutela dei cittadini da parte del corpo di Polizia, con tutti o quasi i partiti e le liste civiche che compongono la maggioranza al governo della città che hanno espresso, separatamente, una ferma condanna sui fatti accaduti, mentre la Lega e il deputato di Forza Italia Flavio Tosi invitano al garantismo nei confronti degli esponenti delle forze dell’ordine.

Colpisce tuttavia che nessuna delle cariche istituzionali cittadine, dal sindaco Damiano Tommasi al nuovo questore Roberto Massucci, fino al Vescovo di Verona, Monsignor Domenico Pompili, abbia avvertito la necessità di esprimere pubblicamente solidarietà nei confronti delle vittime di queste violenze.

A Verona dunque gli invisibili sembrano rimanere tali anche di fronte ad un’eco mediatica che ha portato in città le telecamere di trasmissioni come “Chi l’ha visto” e “Cartabianca”, solo per citarne due tra le più note. E questo induce ad una riflessione più ampia che affrontiamo con Alberto Sperotto, presidente dell’associazione di volontari Ronda della Carità che da oltre 25 anni si occupa dei senza dimora: «Qui al Rifugio della Ronda al momento non è venuto nessuno in rappresentanza delle istituzioni, ma ci tengo a precisare che a noi non interessa e non è mai interessato portare avanti polemiche, ma piuttosto progetti concreti e condivisi a sostegno dei più fragili. Rispetto agli ultimi fatti, stiamo valutando come tutelare al meglio i nostri assistiti, in un contesto che auspichiamo di massima fiducia e collaborazione con le istituzioni coinvolte».

Un fotogramma tratto dalla diretta di “Chi l’ha visto”, con Alberto Sperotto (a sinistra)

Abbiamo raggiunto telefonicamente anche Don Carlo Vinco, Garante per i diritti dei detenuti a Verona e primo prete in Italia a ricoprire questo ruolo, che ha dichiarato: «Certamente sono rimasto molto colpito dai fatti di cui apprendiamo in questi giorni. La violenza non serve a niente, e specie se rivolta ai più fragili, è quanto di peggio possa esserci. Attendiamo la fine degli accertamenti da parte di chi di dovere, personalmente non condivido la copertura mediatica così ampia sulle vittime, perché sono persone che vivono per strada e vanno tutelate. Ritengo anche che l’inchiesta interna della polizia sia stata quantomeno coraggiosa, e la mia prima preoccupazione è stata quella di capire se tra le vittime ci fossero anche persone attualmente detenute. Mi sono confrontato con il questore Roberto Massucci, che ritengo abbia gestito con grande capacità l’intera vicenda, anche dal punto di vista della comunicazione».

Il rapporto tra cittadini e forze dell’ordine

Nessuna volontà, dunque, da parte di chi si occupa a vario titolo dei soggetti più fragili della comunità, di utilizzare la vicenda che vede coinvolta la Questura di Verona per strumentalizzare o delegittimare in toto l’operato delle forze dell’ordine, ma al contrario la necessità di affrontare in maniera diversa il rapporto tra cittadini e forze dell’ordine, in particolare per quanto riguarda i soggetti più fragili.

In questo contesto, il Laboratorio Autogestito Paratodos ha organizzato per il prossimo 22 giugno un incontro con la senatrice Ilaria Cucchi e il sociologo Salvatore Palidda, durante il quale si discuterà della recente proposta del governo di abolire il reato di tortura e dell’opportunità di introdurre il codice identificativo per le forze dell’ordine: l’Italia è infatti uno dei pochissimi Paesi rimasti in Europa a non averlo ancora reso obbligatorio.

Anche Amnesty International sta portando avanti da anni la richiesta di un codice identificativo per le forze dell’ordine impegnate in operazioni di ordine pubblico a qualunque livello, e nel 2022 ha consegnato al Capo della Polizia Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Prefetto Lamberto Giannini, una petizione di oltre 155mila firme per chiederne l’introduzione. «Tale normativa darebbe seguito alla richiesta del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 che esorta gli stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo e dimostrerebbe, a livello internazionale, l’impegno dell’Italia nella prevenzione delle violazioni dei diritti umani», ha dichiarato Laura Renzi, coordinatrice della campagna.

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