I “Martedì del Mondo” è un’iniziativa di Fondazione Nigrizia, Comboniani Verona, Cestim (Centro Studi Immigrazione) e altre realtà associative di Verona.

Martedì 3 maggio, nell’ultimo appuntamento prima dell’estate, è stata proposta una serata dal titolo e dai contenuti molto scomodi: “Italia colonizzatrice e smemorata”.

Sono intervenuti lo storico Francesco Filippi, autore del libro Però noi gli abbiamo costruito le strade, e la professoressa Mackda Ghebremariam Tesfau, docente presso Iuav Venezia, Stanford Florence e Fondazione UniverMantova.

La serata è partita dalla constatazione che il passato colonialista italiano è semplicemente stato messo nel dimenticatoio. Questa dimenticanza, per i relatori presenti, è stata voluta ed è tutt’ora una scelta consapevole delle istituzioni. Ciò che non viene elaborato attraverso una riflessione collettiva, ritorna però inconsapevolmente attraverso scelte e atteggiamenti culturali.

Un pezzo di storia di cui si ha vergogna

Per Filippi le ragioni per cui l’Italia non ha voluto fare i conti con la sua storia colonialista sono tre. La memoria pubblica del colonialismo è una memoria di vergogna. Non solo perché contraria ai valori attuali, ma anche perché obiettivamente finita male e senza grandi risultati.

Foto di Laura Cappellazzo durante la diretta streaming. A sinistra don Giuseppe Mirandola, presidente CMD e CPI Verona, a destra lo storico Francesco Filippi

Nessuno, inoltre, ha mai chiesto conto di quell’esperienza all’Italia. Solo l’Etiopia ha fatto un debole tentativo di far riconoscere alcune azioni militari italiane come crimini di guerra concluso con un nulla di fatto.

Non c’è nemmeno stato quell’arrivo in massa di persone dalle ex colonie, come invece c’è stato in Francia o Inghilterra, per cui la società italiana non ha subito alcun contraccolpo.

Il terzo motivo è che l’Africa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è diventata un Continente su cui tutte le grandi potenze internazionali, avevano perso interesse. Quindi, perché parlarne?

La professoressa Tesfau ha di seguito precisato, che questa mancanza di memoria ha una conseguenza enorme sul nostro presente . Infatti, negare il passato violento di colonizzatori, ci impedisce di vedere che le migrazioni attuali stanno ripercorrendo al contrario proprio le rotte del colonialismo.

Ignorando questa evidenza, le migrazioni vengono gestite solo come problema di sicurezza dei confini, e non viene messa in nessun modo in dubbio la responsabilità italiana sulla povertà da cui esse provengono.

Pensiero e linguaggio razzista

Filippi è poi tornato sul periodo colonialista italiano. È stato un’esperienza storica durata poco meno di un secolo: dall’acquisto della baia di Assab nel Mar Rosso nel 1882, all’ammaina bandiera a Mogadiscio avvenuta nel 1960.

Durante questo periodo la popolazione italiana è stata in qualche modo “istruita” dalle istituzioni politiche, affinché l’aggressione al continente africano venisse giustificata dalla collettività.

Cartoline coloniali

Ecco quindi affiorare le teorie razziste che collegavano le persone di pelle nera alle scimmie, a dimostrazione che nella scala dell’evoluzione stessero un gradino sotto dei bianchi.

Sono stati usati termini razzisti, la propaganda coloniale distribuiva documentari in cui la popolazione assoggettata veniva rappresentata come retrograda, da civilizzare, “da liberare” da una rozzezza che invece gli italiani avevano lasciato da molto.

Tutte queste idee, questo linguaggio, questa ideologia razzista nata per giustificare un’invasione, ha in effetti attecchito nella mente collettiva. La società italiana ha imparato a ragionare in questi termini, a leggere la realtà con una prospettiva razzista che poi, improvvisamente, nel dopoguerra è stata messa in un cassetto.

Ma si può davvero cancellare una mentalità, costruita per un secolo e mezzo, solo non parlandone più? La risposta è no, ed è di nuovo l’attualità a dirlo.

Quando negli anni Novanta, l’Italia è diventata paese di immigrazione, quel linguaggio e quel pensiero razzista mai digeriti perché mai elaborati, sono risaliti come un riflusso violento. Ed ecco che all’arrivo degli stranieri, l’italiano medio ha ricominciato ad usare le stesse definizioni razziste di trent’anni prima.

Un’altra conseguenza molto attuale sul voler dimenticare un passato scomodo, rimarca Tesfau è negare che il razzismo italiano abbia radici nel colonialismo. Bisogna prenderne atto e avviare una riflessione autentica e sincera, se davvero vogliamo cambiare questa mentalità.

Inferiorità dello straniero e riconoscimento della cittadinanza italiana

Tale propaganda serviva a convincere non solo i cittadini italiani, ma in realtà anche il resto del mondo sul fatto che gli italiani fossero superiori, migliori delle popolazioni che stavano conquistando.

Tutto ciò perché gli italiani pativano un grosso senso di inferiorità nei confronti delle altre nazioni europee. Basta ricordare che quando gli immigrati italiani arrivavano in Nord America, erano considerati “scuri”, inferiori, non propriamente civilizzati.

L’Italia, è questa la tesi emersa nel corso della serata, aveva quindi bisogno delle colonie per sottolineare che era una popolazione bianca (se messa a confronto con qualcuno di pelle più scura) e civilizzata (se confrontata con le civiltà che andava conquistando).

Gli italiani avevano bisogno di confermare la propria bianchezza, attraverso gli occhi neri degli africani.

Il problema è che se qualcuno si sente superiore, si sente in diritto di utilizzare qualsiasi tipo di mezzo per prevalere su chi ritiene essere inferiore. Per cui l’esercito italiano, in Libia ed Etiopia, si è macchiato di crimini enormi: uccisioni sommarie, utilizzo di armi chimiche, creazione di campi di concentramento e detenzione.

Per non parlare di com’era (e com’è) considerata la donna nera, dell’istituzione del madamato (relazione temporanea more uxorio tra gli italiani, prevalentemente soldati, e le donne native delle terre colonizzate) e delle ferite profonde che ha lasciato.

Tutte azioni che sono state dimenticate nel Dopoguerra, per dare il via ad un altro “mito”, quella degli “italiani brava gente”.

Professoressa Mackda Ghebremariam Tesfau in collegamento online

Per Tesfau, questa mentalità è alla base del fatto per cui gli italiani in generale preferiscono che tutta una serie di mansioni lavorative considerate umili, si pensi a quelle nel settore dell’agricoltura ma non solo, siano lasciate agli immigrati stranieri. È un tentativo di continuare a confermare la propria superiorità.

Non solo, anche la difficoltà di affrontare con serietà il tema del riconoscimento della cittadinanza italiana, proviene da questo disperato bisogno di proclamare la propria superiorità. Lo stesso significato di diritto civile, viene indebolito dal pensiero razzista, che essendo radicato ma non esplicitato, risulta estremamente difficile da mettere a nudo.

Azioni nel presente

Per Tesfau serve, se vogliamo vivere nel presente con scelte di valore, operare una profonda ed onesta riflessione sul passato colonialista italiano. Prenderne coscienza per riparare e ripartire. Viviamo ormai in una società multiculturale. Non risolvere questi schemi mentali razzisti collettivi, non ci permette di viverla in modo significativo e favorevole.

Per Flilippi tutto ciò potrebbe prendere avvio con l’istituzione di una giornata della memoria sul colonialismo italiano. Fare memoria, o non farla, è una precisa scelta politica che aiuta, o impedisce, la formazione di una mentalità collettiva.

La proposta dello storico è di istituirla in concomitanza con quella etiope. In Etiopia infatti, il 19 febbraio, è la giornata della memoria del massacro ad opera dell’esercito italiano. Furono uccisi migliaia di etiopi, in seguito al fallito attentato contro il vicerè Graziani.

Ormai non è più possibile attribuire la responsabilità personale di queste atroci azioni, ma la responsabilità pubblica e la memoria collettiva sono importanti. Per affrancarsi dal passato e non ripetere più gli stessi madornali errori.

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