Quello che sta accadendo in Ucraina rappresenta il classico processo di “eternizzazione” del conflitto. Ad oggi, infatti, è molto difficile intravedere un orizzonte temporale in cui le armi cesseranno di sputare le loro sentenze di morte. Il rischio concreto è che, stante l’attuale situazione e con il passare del tempo, la guerra diventi sempre più “permanente”, con la possibilità concreta che prosegua ancora per molti anni. Con buona pace (si fa per dire) per la popolazione ucraina, vittima innocente di questo gioco fra potenti.

Il rischio forse ancor più grande, però, è che con il tempo la nostra parte di mondo si abitui sempre più a questa situazione, sempre che non l’abbia già fatto. In fondo, dell’Ucraina e dell’invasione russa, ci interessa sempre meno e la nostra attenzione sul conflitto è destata solo quando qualche nuova minaccia nucleare può interessare anche le nostre vite. Per il resto la parola “pace” sfuma inesorabile nelle nostre coscienze, in una sorta di passato ormai impossibile da ripristinare.

A questo, poi, si accompagna il dato forse più preoccupante: la progressiva insignificanza degli esseri umani. Gli uomini, anche nella narrazione giornalistica, tendono a non significare più nulla. Sono solo numeri, cifre. Non a caso, come sostiene il giornalista Domenico Quirico dalle colonne de La Stampa, questa pare essere diventata ormai una sorta di “guerra del Novecento”, con somiglianze spaventose fra ciò che succede oggi nelle lande ucraine e ciò che avvenne cento anni fa e più, durante la Prima Guerra Mondiale.

Anche allora, nel corso di quei disastrosi cinque anni di conflitto, gli uomini non contavano assolutamente nulla. Contavano, piuttosto, quanti proiettili di mitragliatrice o cannone si avevano a disposizione. Gli uomini servivano solo come pedine per guadagnare cento metri fino alla trincea nemica e poi potevano anche essere spazzati via. Erano sacrificabili. E in Ucraina, purtroppo, da qualche tempo a questa parte sta succedendo la stessa cosa.

Fateci caso: non si parla nemmeno più di quanti militari e civili sono morti davvero in questi primi dodici mesi di conflitto. Ci sono delle cifre che già ora risuonano come spaventose. Più che su quelle cifre, le uniche che dovrebbero contare, oggi però ci si concentra su quanti carri armati sono necessari per vincere la guerra o quanti missili nucleari ha Putin nei suoi arsenali o, ancora, quanti aerei vengono richiesti da Zelenski all’Occidente per poter resistere e magari lanciare la sua controffensiva. Contano più le cose, gli oggetti. E questa meccanica industriale dell’uccidere è un chiaro portato del Novecento, che si ripete tragicamente oggi nelle pianure ucraine.

Come abbiamo fatto ad arrivare a questo?

Le responsabilità comuni, condivise, che ci hanno portato fin qui sono molte. E quello di analizzare le responsabilità rappresenta un esercizio sempre più complicato. Già perché anche sulla guerra è scattato un sentimento di polarizzazione odioso che impone di stare di qua o di là. Sia chiaro è giusto prendere posizione e in questo conflitto non si può che essere al fianco dell’Ucraina, aggredita senza alcuna giustificazione dalla Russia di Putin.

Chiunque osi, però, riflettere anche in una chiave critica su tutto quello che è avvenuto negli ultimi trenta o quarant’anni, con tutto ciò che ha fatto l’Occidente in questo lasso di tempo, viene bollato come “amico di Putin”. E non può essere questo il terreno di discussione. Perché se analizziamo quello che è accaduto dalla caduta del Muro di Berlino in poi, una autocritica sul modo in cui l’Occidente ha affrontato i decenni successivi diviene doverosa.

Quando nel 1989 il Muro cadde, una benedizione perché il mondo si liberava di una tirannia terrificante (uno dei due tragici totalitarismi che hanno caratterizzato il XX secolo, quello comunista), ci furono alcuni intellettuali che teorizzarono la vittoria dell’Occidente e del suo modello capitalista sul resto del globo. Un’affermazione che sembrava in effetti coerente con quanto stava avvenendo, ma, con il senno di poi, tragicamente sbagliata.

Non a caso in quel momento si alzò unico nel panorama internazionale solo la voce di Papa Giovanni Paolo II, che provenendo dalla Polonia aveva subito in prima persona la tirannia sovietica, il quale disse che non ci si doveva scordare che le ragioni che avevano giustificato la nascita di quella ideologia terribile non venivano meno con la caduta del Muro. E quelle ragioni sono la disuguaglianza e la lotta contro le ingiustizie sociali. “Teniamone conto”, disse Woytila, ma non venne ascoltato.

Un modello odiato

I decenni successivi alla caduta del Muro e alla disgregazione dell’URSS hanno visto celebrare il modello socio-economico capitalista, senza che il mondo si fermasse anche solo un momento a riflettere su cosa stava avvenendo di quelle popolazioni che avevano subito quella tirannia. Quella mala-pianta era sì stata estirpata, ma c’era dell’altra gramigna che cresceva in lungo e in largo, in silenzio. E l’abbiamo capito in due occasioni in particolare.

La prima fu l’11 settembre 2001. Prima di quell’occasione eravamo ancora convinti che l’Occidente non avesse più nemici, invece si scoprì nel modo più traumatico possibile che un pezzo di Islam integralista considerava il nostro modello un nemico da abbattere. E questo va al di là, poi, della geometrica potenza del terrorismo di Al Qaeda che aveva organizzato l’attentato alle Torri Gemelle. Quello era solo la punta dell’iceberg di un movimento molto esteso, che rappresentava una fetta consistente di mondo, che in quell’occasione urlò “finalmente”.

La seconda occasione è avvenuta dopo circa 20 anni da quegli eventi, quando è scoppiato un altro tipo di odio, che nel frattempo stava covando sotto le ceneri: l’odio russo. Putin non è sovietico e non è nemmeno comunista. Lui è direttamente zarista. Parla la lingua degli intellettuali russi dell’Ottocento, che hanno in testa l’Eurasia e l’impero di Pietro il Grande e dei Romanov, che guarda a un pezzo di Europa e a un pezzo di Asia come a una parte a loro affidata da Dio. E guardano soprattutto all’Occidente come a un luogo di decadenza. “Voi avete il gender, noi il Cristianesimo” rivendicano, grazie al Patriarca Kyrill e alla Chiesa ortodossa.

Forse fra tre o quattro anni saremo di nuovo qui a dire le stesse cose. Gli uomini ancora interrati nel fango dell’Ucraina, che si scambiano colpi di artiglieria fra gli uni e gli altri, e la guerra sarà ancora lì, in tutto il suo orrore. Nel frattempo saremo tornati agli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso, quando, all’epoca della Guerra Fredda, ci si detestava fra chi era di qua e chi di là della Cortina di ferro.

Noi in passato tutto questo non l’abbiamo visto. Siamo stati convinti che le leggi del mercato del nostro sistema capitalistico, con tutti i valori e disvalori che si porta dietro, ci avrebbero garantito la pace e sicurezza eterne. E non abbiamo fatto nulla per prevenire le attuali catastrofi. Una parte di responsabilità, dunque, l’abbiamo anche noi e sono di tipo storico, economico e culturale.

Un futuro per nulla scontato

Questa guerra, mentre la combattiamo al fianco del popolo ucraino, va analizzata anche rispetto al modo di essere e di stare al mondo di noi Occidentali. E se ci fosse ancora qualche dubbio basti pensare al recente voto alle Nazioni Unite, quando la risoluzione che condanna l’aggressione russa all’Ucraina è stata sì votata dalla maggioranza assoluta, 141 Paesi, ma non va dimenticato che ben 32 si sono astenuti (e fra questi ci sono Paesi geopoliticamente importanti come Cina, Turchia, Iran e India) e comunque sette hanno votato addirittura contro. Mezzo pianeta, dal punto di vista numerico, è contro di noi o comunque non con noi.

Potremo quindi anche risolvere nel migliore dei modi la crisi ucraina, ma come è successo con la caduta del Muro faremmo un tragico errore a pensare che dopo avremo di fronte un futuro sereno, senza guardare a quelle zone del Pianeta che vogliono l’opposto di ciò che siamo.

La guerra come soluzione

Torniamo, pertanto, al parallelismo con la Prima Guerra Mondiale: nel groviglio dei problemi che si erano creati in Europa fra Austria-Ungheria, i Balcani, il confronto franco-tedesco, le tensioni coloniali e via dicendo, erano in molti a pensare che la guerra in fondo, avrebbe risolto tutto, anche rapidamente. E invece milioni di soldati sono rimasti piantati nelle trincee a morire per cinque lunghissimi anni. E ricordiamoci che nel 1914 le bombe atomiche non c’erano. C’erano “solo” le mitragliatrici.

Forse è significativo che fra i film più premiati nella notte agli Oscar 2023 ci sia il magnifico “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Edward Berger, ispirato ovviamente al celebre romanzo di Remarque. Forse al di là dell’effettiva qualità della pellicola, da vedere assolutamente, c’è anche il significato sottostante che si è voluto lanciare da Hollywood: “mai più”. Un grido di dolore che dovrebbe arrivare a chi ha poteri decisionali a livello globale e che invece rimane per il momento inascoltato.

Un meccanismo che si “nutre” da solo

Nessuno oggi sa esattamente come uscire da tutto questo. In molti discorsi di politici e giornalistici, ci si limita a ripetere ancora e ancora ciò che si diceva il 25 febbraio 2022. Il giorno dopo, cioè, l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Come se da un anno a questa parte non fosse successo nulla. La guerra, invece, nel frattempo si è evoluta. Possiamo, anzi, dire che molte cose sono cambiate negli ultimi dodici mesi. Sono entrati in scena nuovi attori e soprattutto nuove armi, nuovi rischi e nuove possibilità.

Per certi aspetti non sono più i Capi di Stato a decidere come si evolverà la guerra ma è la guerra che decide per se stessa, ingoiando gli uomini, in un meccanismo automatico che si nutre del proprio “essere”. Come se nessuno dei vari protagonisti, da Putin a Biden, da Zelenski a Erdogan o chi per loro, avesse oggi la possibilità di dire davvero “basta”.

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