In questi giorni arrivano dall’Iran delle immagini impensabili fino a qualche tempo fa. Donne che scendono in piazza senza velo, che protestano, che si tagliano i capelli in pubblico o sui loro profili social. Qualcuna addirittura brucia il proprio velo.

Tutto questo per Mahsa Amini, una giovane donna di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, morta il 16 settembre a Teheran, capitale dell’Iran, dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non avere indossato correttamente il velo islamico, l’hijab.

Cos’è successo a Mahsa Amini.

La ragazza ventiduenne, stava passeggiando per Teheran con la famiglia, come dei normali turisti in visita alla capitale del proprio paese.

Foto di Mahsa Amini, dal web

Improvvisamente viene arrestata e portata via dalla polizia religiosa, o polizia morale, organo di controllo che fa capo al Ministero della Cultura e della Guida Islamica e vigila che vengano rispettate le norme islamiche e conservatrici del paese, fra cui quelle sull’abbigliamento femminile.

Poco dopo alla famiglia, verrà comunicato il decesso della ragazza.

Dal 1981 in Iran è in vigore una legge del regime islamico che obbliga le donne a mostrarsi in pubblico coperte da uno chador, un mantello in genere nero che copre dalla testa ai piedi, oppure con un hijab, uno scialle annodato intorno alla testa e al collo per coprire i capelli portato insieme ad una maglia a maniche lunghe per coprire le braccia.

Dal 2021 al governo c’è il presidente Ebrahim Raisi, con il suo partito di ultraconservatori. Di recente proprio il presidente aveva annunciato di voler avviare un’operazione per contrastare la corruzione organizzata nella società islamica. Un modo articolato per dire che avrebbe inasprito alcune regole, quali quelle che regolamentano il vestiario femminile.

Ritornando a Mahsa Amini, secondo la famiglia e secondo varie testimonianze ormai convincenti, la donna sarebbe stata picchiata a morte in carcere.

Sui social sono anche circolate delle foto di Mahsa con il volto ferito e delle sue TAC svolte all’ospedale in cui è stata ricoverata già morta. Le immagini mostrano un grosso trauma alla testa e su altre parti del corpo.

La polizia religiosa, invece, sostiene che Amini sarebbe morta in carcere a causa di un infarto o di un attacco epilettico. Suona famigliare vero?

Le proteste

La morte di Mahsa ha infiammato la popolazione del Kurdistan come anche i cittadini di Teheran, tanto che il governo iraniano ha limitato l’accesso a Internet in varie zone del paese, rendendo complicata la condivisione di foto e video.

Foto di Ali Reza, pexels.com

Si protesta non solo per la morte assurda di una ragazza che passeggiava per Teheran, ma anche contro i vari abusi della polizia religiosa, di cui in molti hanno chiesto lo scioglimento.

La polizia ha ovviamente reagito con durezza. Secondo la ong Iran Human Rights, sono almeno 50 le persone uccise.

Il presidente Raisi da parte sua, ha dichiarato di voler avviare una rapida indagine sulla morte di Mahsa. Allo stesso tempo ha anche disapprovato pubblicamente le proteste e i disordini.

Sempre lui poi, ha dato buca alla giornalista americana Christiane Amanpour, che avrebbe dovuto intervistarlo a New York, al termine dell’Assemblea generale dell’ONU. Sarebbe stata la prima intervista dopo lo scoppio delle proteste, ma all’ultimo il presidente si è rifiutato, perché Amanpour non indossava il velo.

Alcuni commenti di Iraniane che vivono in Italia

Abbiamo provato a chiedere ad alcune donne di origine iraniana che vivono, lavorano e studiano nel nostro territorio, dei commenti su quanto sta succedendo. Molta è la paura e la reticenza a parlarne pubblicamente.

Foto di Yuri Manei, pexels.com

Tutte hanno chiesto di non pubblicare i loro nomi, di non dare indizi sulle loro identità. Temono per le loro famiglie che sono in Iran, perché il controllo della polizia va ben oltre i confini nazionali e una parola di troppo, un gesto non allineato, può mettere in pericolo i famigliari che continuano a vivere in patria.

A.B. afferma che la situazione è molto difficile e pericolosa. Rifiuta l’intervista per paura delle ripercussioni sulla sua famiglia in Iran. La sua partecipazione alle proteste è anonima e avviene primariamente sui social, tentando di arginare dall’Italia le restrizioni all’accesso a internet del governo iraniano.

J.P. lamenta di non poter raggiungere la sua famiglia e di non poter sapere se stanno tutti bene. Alla domanda su come pensa finiranno le proteste ammette di non averne idea. Gli esiti sono imprevedibili ma, afferma con forza:

«È necessario continuare con le proteste. Nonostante la paura. Il regime deve finire; gli iraniani vogliono la fine di questo regime e delle sue regole oppressive.»

Anche S.N. è della stessa idea e ripete più volte la frase «Il mondo deve sapere. Dobbiamo far sapere cosa succede lì. È importante far circolare le notizie.»

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