Riassumere in poche righe ciò che sta succedendo in questo periodo nei territori di Etiopia ed Eritrea, è impresa ardua. I motivi sono essenzialmente tre.

Il primo è riuscire a descrivere correttamente le diverse relazioni etniche esistenti, specie considerando che l’Etiopia, secondo paese in Africa per popolazione, è uno stato federale composto da numerosi gruppi etnici. Gruppi che, a causa della lunga dittatura vissuta, non si sono mai integrati realmente in unico stato, ma al contrario hanno esacerbato le loro differenze.

La seconda è che da quando è scoppiata l’ultima guerra civile, il 4 novembre 2020, il governo etiope ha adottato una strategia di forte censura nei confronti della libera informazione.

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Un accampamento in Tigray – Foto da Pixabay

Non solo le notizie non circolano all’interno del paese, coperte da una pressante propaganda governativa, ma anche i confini sono stati chiusi alle agenzie di stampa straniere con la conseguenza che al momento risulta difficile capire cosa stia succedendo esattamente nel Corno d’Africa.

Infine quel poco che trapela fra le maglie della censura risulta comunque manipolato e utilizzato a proprio vantaggio da Paesi stranieri che hanno enormi interessi economici su quei territori (come, del resto, un po’ su tutto il territorio africano, ricco di materie prime): USA, Cina, Russia, Europa, Turchia. Attori nascosti di una tragedia che si sta consumando, come sempre, sulla pelle della popolazione.

Ci siamo già occupati su queste “colonne” di questo conflitto, sia quando è scoppiato, sia ad aprile 2021 quando è stato pubblicato un interessante rapporto da parte di un’Università belga sugli effetti della guerra in Tigray.

Gli ultimi sviluppi

A dicembre 2021, le Nazioni Unite hanno deciso di avviare un’indagine indipendente sugli abusi e le violazioni dei diritti commessi in Etiopia. Rapporto che però ha lasciato delusa gran parte della comunità internazionale, perché sembrerebbe aver omesso più di quanto abbia descritto. Il 7 gennaio 2022 il governo etiope ha dichiarato che avrebbe avviato un dialogo con l’opposizione tigrina, ma il giorno seguente avrebbe nuovamente colpito, utilizzando droni. Il 25 gennaio una delegazione di direttori regionali delle Nazioni Unite è arrivata in Eritrea, per una missione di cinque giorni. Il giorno dopo, il 26 gennaio, il Governo etiope ha approvato la revoca dello stato di emergenza.

Paolo Lambruschi, foto scattata durante la conferenza online da L. Cappellazzo

Giovedì’ 27 gennaio, durante il secondo incontro del percorso sui conflitti dimenticati nel mondo, promosso da Caritas Tarvisina e Fondazione Migrantes, è stato invitato a parlare di tutto questo Paolo Lambruschi, giornalista di Avvenire, che si occupa del conflitto tra Etiopia, Eritrea e regione del Tigray, fin dal suo inizio.

Lambruschi ha inizialmente ripercorso gli ultimi trent’anni di storia dell’Etiopia, partendo dal fatto che lo stato etiope era, fino a poco tempo fa, considerato una promettente potenza africana, per la grande quantità di risorse del sottosuolo, ma anche per l’enorme potenzialità agricola e commerciale.

La svolta mancata

Nel 2018, Abiy Ahmed Ali è stato eletto Primo Ministro. Di etnia Oromo, sembrava essere la svolta che avrebbe consentito al suo paese di sviluppare le proprie potenzialità dopo quasi trent’anni di dura dittatura tigrina. Tante erano le aspettative che nel 2019, gli viene addirittura consegnato il Premo Nobel per la pace.

Nel 2020 però, quando le tensioni con il Tigray diventano intollerabili, inizia un’offensiva armata contro quella regione dell’Etiopia.

Da lì è tutto un susseguirsi di massacri, di attuazione di orrendi crimini di guerra come lo stupro sistematico e l’utilizzo di droni (di provenienza cinese) che colpiscono indiscriminatamente la popolazione civile e campi profughi. Azioni coperte da una fortissima propaganda mediatica interna, sostenuta da incarcerazioni di chiunque tenti di far trapelare qualsiasi tipo di notizia su ciò che accade.

Nel frattempo Abiy si allea con il dittatore eritreo Isaias Aferwerki. Un uomo che ha stabilito il secondo regime più antidemocratico al mondo: il primo è quello della Corea del Nord.

Foto di Brett Sayles, from pexels

La differenza tra i due regimi è sostanziale: mentre dalla Corea del Nord nessuno può uscire, l’Eritrea è il paese con il più alto numero di profughi al mondo.

L’Eritrea è un Paese che viene definito stato-caserma: ha infatti istituito il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Ciò significa che qualsiasi cittadino eritreo deve far parte delle forze militari, dai 16 anni fino ai 50 anni. Una sorta di lavoro forzato statale, senza paga.

Il governo nega. Ma sono ormai decine di migliaia le testimonianze raccolte dai profughi eritrei, nei vari Paesi del mondo.

Etiopia ed Eritrea insieme, portano avanti una guerra feroce contro la popolazione tigrina, una guerra che non disdegna l’utilizzo di azioni criminali contro la popolazione inerme, come l’attacco dei pellegrini ad Axum (un migliaio le vittime), o lo stupro contro le donne tigrine.

Gli ospedali raccontano di una brutalità mai vista prima, rovesciata addosso a centinaia di donne, bambine e anziane, anche religiose. La più piccola vittima documentata ha 5 anni. Ma si calcola che tre donne su quattro abusate, non vadano in ospedale perché l’aver subito lo stupro nella società tigrina comporta l’automatica emarginazione dalla società.

La popolazione del Tigray è allo stremo. Siamo di fronte a una crisi umanitaria drammatica, acutizzata dal fermo degli aiuti internazionali. E nel frattempo si continua a combattere, a uccidere, a violentare, su tutti i fronti.

Le pressioni internazionali

E al di fuori dei confini, le grandi Nazioni soffiano sul fuoco: chi vuole che l’Etiopia rimanga unita (come gli USA) per avere un alleato economico in Africa; chi preferisce l’indipendenza del Tigray, per indebolire la potenza etiope (Sudan ed Egitto) ed avere accesso diretto al Mar Rosso, cruciale via commerciale internazionale; chi, come Cina, Russia, Turchia e la stessa “nostra” Europa, che supporta una o l’altra parte a seconda degli interessi contingenti.

Getahun Tamrat, foto scattata durante la conferenza online da L. Cappellazzo

“Come si può pretendere che l’Etiopia rimanga unita, se per trent’anni ai gruppi etnici che la compongono è stato imposto di odiarsi?” si chiede Getaun Tambrat, cittadino italiano dal 2010, di padre eritreo e madre etiope, secondo ospite della serata.

“Come si può chiedere la pace, se l’Etiopia è diventata un terreno di gioco di Paesi stranieri che si vogliono solo approfittare delle sue ricchezze? La guerra in Etiopia, non è solo una guerra militare tra etnie diverse. È una guerra economica di Paesi stranieri. È una guerra mediatica con la censura dell’informazione. È una guerra sporca sulla pelle dei civili.”

Ciò che si teme è che per i crimini di guerra commessi alla fine non pagherà nessuno. Per questo deve essere mantenuta alta l’attenzione. Per questo si devono raccogliere testimonianze, approfondire, portare alla luce quanto commesso da tutti gli eserciti che si combattono.

Anzi, il rischio finale è che la comunità internazionale accetti un conflitto “endemico”, diciamo così “ridotto” alla sola regione del Tigray, per salvaguardare l’immagine di un’Etiopia unita che fa il gioco economico di potenze straniere.”

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